Partecipazione: fuori dal palazzo
Rinnovare o rafforzare il patto democratico di una comunità è una operazione complessa che passa dal ruolo delle istituzioni a quello della società organizzata, fino all’interesse del singolo cittadino per le vicende che accadono nel luogo dove vive. Di questa complessità fanno parte a pieno titolo i percorsi partecipativi che alcuni comuni anche in Val di Cornia hanno promosso di recente in occasione di progetti di trasformazione o dell’intero territorio o di parti importanti di esso. Ma le cose, a questo proposito, potrebbero andare meglio.
Il primo punto critico, che chiama in causa soprattutto gli amministratori, è che i percorsi partecipativi promossi fino ad oggi sono stati occasionali e fatti più per utilità politica che per la reale convinzione del loro valore democratico; il secondo punto critico è la strumentalità che i comitati e le forze politiche di opposizione hanno introdotto in questo tipo di percorsi, delegittimandoli oppure caricandoli di pregiudizi e secondi fini che niente avevano a che fare con l’oggetto effettivo della discussione. Nonostante questo e forse direi proprio per questo, vale molto la pena di insistere sulla diffusione e stabilizzazione di queste che chiamerei “tecniche democratiche”.
Perché vale la pena? Perché i percorsi partecipativi hanno il duplice pregio di portare la discussione fuori dal palazzo, aumentando il grado di conoscenza dei problemi e di coinvolgimento nelle decisioni dei cittadini, e, secondo pregio, aiutano a comprendere e superare i conflitti e le resistenze che si creano quando in ballo ci sono processi di trasformazione di pezzi di città o del territorio nel suo complesso. Al netto delle strumentalizzazioni e dell’opportunismo politico, il processo democratico che questo tipo di percorsi è in grado di attivare vale di sicuro lo sforzo economico e culturale che è necessario per farli.
Baratti, Piazza Bovio, piazza dei Grani per Piombino, il Piano strutturale per San Vincenzo valevano sicuramente percorsi come quelli che sono stati via via attivati e conclusi con il coinvolgimento, in modo diretto e indiretto, di qualche centinaio di cittadini per volta, numeri che in tempi di calo della partecipazione e dell’interesse per la vita pubblica sono più che lusinghieri.
Certo bisogna migliorare, evitando di professionalizzare eccessivamente queste tecniche, di attivarle non per arginare o stemperare le pressioni derivanti dai conflitti generati dalle decisioni delle amministrazioni ma perché siamo realmente convinti della loro utilità democratica, infine, di considerarle sostitutive o alternative alla democrazia rappresentativa, che resta indiscutibilmente l’espressione più alta di governo pensata dagli uomini dall’Atene del V° secolo in poi. Il punto casomai è un altro, quello cioè di riuscire a includere stabilmente i percorsi di partecipazione all’interno dei procedimenti urbanistici e di trasformazione, facendoli diventare un metodo di lavoro e una parte fondamentale del percorso che porta ogni amministrazione ad assumere legittimamente e autonomamente delle decisioni. Se ci riuscissimo credo proprio che avremmo fatto un passo avanti importante verso l’innalzamento del grado di qualità della nostra democrazia.
Stimata Pietrelli, condivido forma e merito di gran parte di ciò che ha scritto, mi piacerebbe sapere qual è la strumentalizzazione operata dai comitati. Sarei curioso anche di conoscere nel dettaglio cosa si intende per “secondi fini”.
Grazie
Non siamo d’accordo sull’affermazione sul secondo punto critico. E’ un’affermazione generica, massimalista e pericolosa. La differenza tra un gruppo che vuole lavorare per fare democrazia partecipata e le istituzioni e i partiti che gestiscono attualmente il potere in Val di Cornia sta nel non usare luoghi comuni, nel non usare slogan e nel dare informazioni precise. Ci venga detto chiaramente i nomi dei comitati e delle forze politiche di opposizione che hanno deligittimato i percorsi di partecipazione introducendo pregiudizi e secondi fini.
Rispondo a entrambi i commenti con questo unico post perché mi sembra che la questione posta sia più o meno la stessa. Ho cercato di proporre un’analisi dei percorsi partecipativi a tutto tondo, che ne evidenzia i punti di forza e quelli di debolezza, perché credo nel loro valore e penso che per farne realmente uno strumento efficace di democrazia vadano migliorati sia nella loro progettazione che nel loro utilizzo. L’aggressività con la quale la questione viene posta in particolare da uno dei miei due critici, mi fa capire che forse ho toccato un nervo scoperto. Purtroppo per me e per voi, non solo la mia valutazione non ha niente di stigmatizzante o personale, ma non è nemmeno una mia invenzione, perché ampi studi e riflessioni che ho avuto modo di approfondire, in particolare grazie alla Regione Toscana che ha proposto nel tempo delle lezioni sui vari percorsi partecipativi effettuati nel nostro paese e a livello europeo, affrontano in modo preciso questo tema, lasciandolo del tutto aperto e irrisolto, come un’aporia con la quale saremo sempre costretti nostro malgrado a confrontarci. Tra i punti critici e negativi di questi percorsi quello della strumentalizzazione a fini politici da parte dei comitati o comunque di chi si oppone alle decisioni prese dalla pubblica amministrazione è, infatti, uno dei nodi che minano l’efficacia e l’utilità reale di queste tecniche. Così come l’introduzione massiccia nella discussione di elementi di pre-giudizio, vale a dire di giudizi a priori già ben formati, che, come dice la parola stessa, precedono la discussione e, pur essendone attraversati, si ritrovano intatti alla fine come se nulla fosse accaduto. Colpa del percorso male impostato o mal gestito o della refrattarietà del soggetto che partecipa alla valutazione degli elementi aggiuntivi che il percorso dovrebbe portare alla sua attenzione? Entrambe le cose forse, in ogni caso il problema è serio, almeno per me, e in questo senso l’ho posto, con la speranza che arrivassero contributi tesi a considerare il problema che pongo come fondato o al contrario lo dichiarino privo di fondamento, spiegando naturalmente il perché.
Bisogna certo riconoscere che i percorsi partecipati in alcuni casi hanno dato frutti positivi come, a mio giudizio sul caso di Baratti. Piazza Bovio meriterebbe un discorso a parte, visto che in questa piazza vengono permesse attualmente cose del tutto contrarie alla lettura che ne hanno dati i cittadini.
Tuttavia, senza nulla togliere alla professionalità di chi ha accompagnato queste esperienze, credo che debba essere riconosciuto che i percorsi partecipati di questo tipo si rendono necessari quando si è di fronte a poca capacità di ascolto quotidiano della gente e ci si trincera nei Palazzi e negli studi di architettura. Se la politica perde, come ha perso, la capacità di ascoltare ha sostanzialmente tradito il suo compito fondamentale.
I percorsi partecipati sono un surrogato di quanto dovrebbe fare la politica. Inoltre, a mio parere, i percorsi partecipati non vanno osannati più di tanto, poiché comunque sono destinati a coinvolgere solo una piccola parte della gente, guarda caso la più attiva, quella che si ritrova poi nei partiti e nei comitati. Se a questo non credete prendete l’elenco dei partecipanti ai tavoli.
Il vero problema è quello di tornare alla capacità di ascolto della politica ed alla costruzione di gruppi dirigenti in grado di fare la sintesi (non la somma algebrica) di quello che si muove nella società. Certo non scadendo nel populismo, ma con la tensione di chi è consapevole comunque di avere un ruolo guida che gli deve consentire sempre uno sguardo lungo.
Avendo partecipato solo al percorso su piazza dei grani mi piacerebbe sapere se la sua sostanziale inutilità ‑visto che nulla è stato concretamente fatto- è dovuta all’incapacità dell’amministrazione comunale di presentare buoni progetti e poi portarli avanti o alla presenza dei “soliti comitati” . Per me, buona la prima. Troppo comodo scaricare la colpa dei fallimenti sulle opposizioni o sui comitati che di fatto hanno surrogato la scomparsa dei partiti come forma organizzata della “democrazia dal basso”.