I cercatori d’oro a Goron Goron in Burkina Faso
PIOMBINO 15 dicembre 2014 — L’0r0 dei poveri… cercatori d’oro (uomini, donne, bambini) che scavano con le mani nella terra circostante alla grande miniera d’oro scoperta di recente nel deserto di Goron Goron (che significa Sediamoci e parliamo)… recintata da una multinazionale nordamericana che la sfrutta… un grammo d’oro, pesato con un fiammifero, in cambio di un dollaro è il lavoro sovente di una settimana… è un crimine contro l’umanità e va denunciato.
(Per consultare l’intero reportage clicca qui)
Sulla fotografia degli esclusi
“Perché gli uomini restino civili o lo divengano, bisogna che tra di loro
si sviluppi l’arte dell’associazione e si perfezioni in maniera proporzionale
alla crescita dell’uguaglianza delle condizioni”.
Hannah Arendt
“Non ho simpatia verso chi usa un potere, che crede di avere o gli viene attribuito,
per rendere infelice qualcuno… Dove c’è buona fede c’è sempre un lampo di poesia…
Se l’anima è bella è bella anche l’immagine”.
Ando Gilardi
Quando ero bambino, mio padre mi insegnò a non piegare mai la testa di fronte alla cattiveria e non scendere mai così in basso tanto da odiare una persona.
Quando ero bambino, mia madre mi disse di non avere timore di piangere, né quando si ama né quando si soffre… mi disse anche di non aver paura dell’amore ma di temere di non averlo incontrato mai!
Davanti al dolore degli altri è difficile sorridere, com’è difficile piangere. La crudeltà della civiltà dello spettacolo è straziante e cercare una ragione per esistere al di fuori dei consumatori di violenze o mercanti d’armi è difficile quanto cercare un uomo onesto in parlamento. Crediamo ad una forma di “ecologia delle immagini” (Susan Sontag), una sorta di “fotografia randagia” che si schiera dalla parte degli oppressi e contro gli oppressori. Non ci interessano le iconografie della compassione né i sudari della povertà… sappiamo che la ricchezza di pochi implica l’indigenza di molti. E nessuno può dire che il mondo non va così.
Le guerre coloniali, le guerre del petrolio, le guerre di religione… sono lì a ricordare all’umanità che ad Auschwitz, mentre si assassinavano milioni di persone, gli aguzzini si faceva suonare Schubert prima di cena e nel resto del pianeta impazzava il boogie-woogie di Glenn Miller. L’era atomica inaugurata da Hiroshima annunciava nuovi presagi di bruttezza dell’umanità. La terribilità, come l’indifferenza, sono alla base d’ogni genocidio accettato. La guerra tecnologica è entrata nelle case e l’idea di onnipotenza dei paesi ricchi è divenuta planetaria.
E Dio, dov’è il buon Dio? Si chiedeva il filosofo ebreo Elie Wiesel di fronte al bambino impiccato nel campo di sterminio di Auschwitz: “Più di una mezz’ora restò così, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca”. Nessun uomo è un isola e se “il ricco o è un ladro o un erede di un ladro” (diceva già nel IV secolo il vescovo Basilio), educazione liberatrice, solidarietà comunitaria e dialogo interculturale significano responsabilità di ciascuno verso l’intera rete sociale.
La scrittura fotografica degli esclusi non sempre è parte del giogo del mercimonio esposto in gallerie o musei di cattivo gusto. Qualche volta essere pionieri incompresi non comporta solo raccogliere gli sputi, ma anche i sorrisi traditi dei bambini che muoiono per fame ai quattro venti della terra. Nessuno può comprare un sorriso. È riprovevole che la storia della fotografia sia racconta da storici che la storia non ha ammazzato. La sola epopea che ci commuove è quella dei fra’ Dolcino, dei Jules Bonnot, dei Camilo Torres, dei “Che” Guevara o di mia nonna partigiana, che mi ha insegnato a non credere mai a nessun “buon governo” né hai suoi fucili… sono le loro gesta ereticali che hanno liberato l’utopia nel quotidiano e sognato un’umanità libera come un passero in cielo. La società dello spettacolo imprigiona, è l’amore dell’uomo per l’uomo che ci rende liberi. Un mondo differente è possibile.
La fotografia, quando è grande, esprime il ritratto di un’epoca. Non evoca nulla. Mostra una parte per il tutto. In ogni forma d’arte ciò che è importante è fare una scelta, elaborare una sintesi, escludere l’inutile e il troppo facile. Si tratta di tagliare le fronde dell’opulenza descrittiva per lavorare nel rizoma del segno rovesciato. Dietro ogni grande fotografia c’è un criminale o un poeta dell’anima bella, sempre.
La fotografia randagia o della vita quotidiana si accosta alla gente della strada, racconta le piccole cose che si celano o si riversano nel comune sentire… è un’iconografia del reale che attraverso la conoscenza del dolore o della gioia si trasforma in coscienza sociale. Un fotografo che vale non è mai l’uomo di una sola idea variamente modificata, è una sorta di artista del vero che non cessa di fare variazioni su uno medesimo tema.
La ritrattistica degli esclusi è legata al pudore, al rispetto, alla dignità dei volti, dei corpi, delle situazioni che fuoriescono nell’istante preso ai fotografati e, secondo una visione antropologica dell’immagine, dove la persona è interprete di una memoria storica/politica di antica forza e profonda importanza per un intero Paese. Il fare-fotografia degli ultimi è consacrato a precisare, affinare, aggiungere, dire ciò che i mutamenti della società esigono… “non c’è mai disperazione senza un po’ di speranza” (Pier Paolo Pasolini) e i fotoracconti, i ritratti ambientati, i tagli figurativi (anche quelli un po’ sgrammaticati) degli esclusi figurano l’odore del vero di uomini, donne, ragazzi deposti in un sudario amorevole verso la comunità che viene.
La fotografia degli esclusi coniuga l’uomo e il mondo in punta di fotocamera e ricostruisce la vita quotidiana del proprio tempo. Il fotografo può essere innocente, la fotografia mai! La fotografia così fatta mette a nudo il cuore suo e quello dei ritrattati e riporta la loro presenza all’innocenza di un esistere sovente faticoso o ingiusto, tuttavia è un frammento di realtà che si fa storia. È là dove avviene la nascita della fotografia autentica che nascono i desideri di una vita migliore.
Spetta ai fotografi del giusto, del buono, del bello cogliere i valori dell’umano e fare dell’immaginario liberato la misura di tutti i possibili. Solo la fotografia del vero ha diritto di cittadinanza nei cieli svaligiati della politica della menzogna… i fotografi che restano sui marciapiedi della fraternità, dell’accoglienza, della condivisione non rivestono i propri sogni se non con gli abiti che gli appartengono… i fotografi del mercimonio, del narcisismo o del consenso — disfatti nella mediocrità dello spettacolo — si agitano come ratti su un cumulo di spazzatura. Ogni imbecillità ha i suoi teatri.
L’iconografia degli esclusi si fonda sulla visione etica dell’uguaglianza. La fotografia così intesa, assume su di sé la responsabilità per l’altro. È mettere l’altro al centro della propria attenzione e fare della libertà il principio di tutte le cose. La libertà, come la dignità, non si dà, si conquista. Nessun uomo è veramente libero di godere della dignità se da qualche parte della terra altri esseri umani sono privati della libertà. Dove c’è lo spirito d’amore dell’uomo per gli altri uomini, lì c’è la bellezza della libertà. L’amore per la libertà e per la bellezza è un viatico, un segno, un sogno… la vita buona nasce dal lievito della conoscenza e apre il cammino della speranza.
La fotografia in forma di poesia, non registra la realtà, la interpreta. La fotografia della bellezza non corteggia la morte, anzi denuncia la cultura del disastro della quale è icona adorante e adorata. L’estetica del terrore poggia sull’ordinaria amministrazione di un esistente banalizzato. È la morale spicciola degli affari sporchi e dei terrorismi di ordinaria follia. Il ritorno alla ragione significa ritrovare l’innocenza perduta e lavorare affinché le Utopie si trasformino in “topie”, ovvero in cammini possibili per la conquista di un’umanità più giusta e più umana. “La connessione tra gli uomini non passa per la superiorità, che isola, bensì per la debolezza: l’umanità ha bisogno di senso di comunanza” (James Hillman), di un’elaborazione poetica del quotidiano, condotta nel piacere di un incessante immaginare.
L’amore per la libertà e per la bellezza è un cammino, un segno, un sogno… la vita buona nasce dal lievito della conoscenza, diceva. Lo stupore e la meraviglia sono le stelle comete sulle quali andare a cavalluccio lungo la Via Maestra della solidarietà, della fraternità, dell’accoglienza del diverso da sé… e rompere il disamore, la predazione, il genocidio di una società del dolore che non merita essere difesa ma aiutata a crollare. Chi (come noi è stato allevato nella pubblica via) non è di nessuna chiesa, non si ritrova nemmeno in una congrega di miscredenti, e la sola bellezza e libertà che ama fino a morirne là, al limitare del bosco, è la vita sognata degli angeli del non-dove, che annunciano — in amore — la fine delle sofferenze. La bellezza della fotografia randagia è il punto più vicino fra il genere umano e l’eternità.
Al posto della morale
Una sera, di quelle sere odorose di stelle e di acacie, sotto un filo di luna che quasi toccava i margini di un deserto africano, mentre fumavo un sigaro toscano all’anice… dal fondo di una duna di sabbia rossa increspata dal vento della via del sale… vidi una ragazzina che portava una grossa balla sulle spalle… camminava con fatica e quando fu vicino a me, mi accorsi che la balla gocciolava sangue… le chiesi: — “È un peso grande ciò che porti sulle spalle? —. La ragazzina si fermò appena e disse: — “Non è un peso, è mio fratello” –. Da quel giorno, quando sono in giro nelle periferie del mondo o in qualsiasi altro posto a fare fotografie e qualcuno mi permette di aiutarlo, dico: “Non è un peso, è mio fratello”.
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 19 volte agosto, 2013.