La clinica dell’ aids a Ouagadougou
PIOMBINO 15 settembre 2014 — Il Burkina Faso è tra i più poveri paesi del mondo e tra i più colpiti dalla pandemia da HIV/AIDS. Su una popolazione di poco più di 14 milioni di abitanti, l’UNAIDS stima che quasi 500.000 siano sieropositivi e che la mortalità legata all’AIDS si attesti oltre i 40.000 decessi/anno. Quasi il 3% delle gestanti sono HIV positive e, ogni anno, circa 18.000 neonati sono a rischio di trasmissione dell’HIV. Sulla base di queste stime, in Burkina Faso l’HIV infetterebbe quindi ogni anno tra i 5.000 d i 9.000 bambini. Le reali dimensioni del fenomeno non sono però conosciute: la mancanza di offerta di cure per i bambini con AIDS disincentiva il ricorso delle loro famiglie alle strutture sanitarie e i programmi di prevenzione della TMB (trasmissione madre-bambino) non prevedono progetti di sensibilizzazione per lo screening dell’HIV durante la gravidanza.
Questa clinica per curare l’HIV/AIDS è alla periferia di Ouagadougou (capitale del Burkina Faso)…è gestita dai padri comboniani e accoglie cristiani, musulmani, animisti…sovente è stata assaltata, depredata e alcuni padri hanno perso la vita…è un crimine contro l’umanità e va denunciato.
( Per consultare l’intero reportage clicca qui)
SULLA FOTOGRAFIA DI STRADA
Sulla filosofia dell’angelus novus e della società che viene
ancora a Pier Paolo Pasolini, amico e maestro
perché i suoi accattoni indifesi, le sue puttane infelici,
e la meglio gioventù che è andata a combattere
una guerra di Resistenza con uno straccetto rosso al collo…
sono angeli necessari a comprendere l’amore perduto
di una dolente umanità e la conquista delle prossime
primavere di bellezza al canto di “Bella ciao”…
“Un figlio nato lontano, nel mondo dei borghesi,
con in mano la bandiera della Novità, scolaro dello Scandalo,
erede della Rivoluzione, è morto di amore
per un mondo di foglie bagnate dalla pioggia,
e non ha trovato mai nulla di più dolce di quel tornare dei Padri nei Figli”.
Pier Paolo Pasolini
“La teologia della liberazione che cerca di partire dall’impegno
per abolire l’attuale situazione d’ingiustizia
e per costruire una società nuova, deve essere verificata
dalla pratica dello stesso impegno…
Tutte le le teologie politiche della speranza, della liberazione,
della rivoluzione, non valgono un gesto di solidarietà con gli uomini,
con le classi e con i popoli oppressi”.
Gustavo Gutierrez
“L’uomo nasce libero ed ovunque è in catene”
J‑J. Rousseau
I. Ouverture in forma di rosa
Mio padre e mia madre mi hanno insegnato ad amare il diverso, il povero, l’escluso e mi dicevano vicino al fuoco, mentre il pesce azzurro arrostiva nel sale, che nessuno può comprare un sorriso… e ancora… una mosca quando muore soffre quanto un re… e quando fuggivo sul tetto a guardare le stelle, a cercare la regina degli stracci sulla Via Lattea o i briganti del libero sorriso e del coltello facile — “Fai quello che vuoi, ma quello che fai fallo con amore… perché quand’anche avessi tutti i mari e i cieli della terra, e tutto l’onore degli uomini, se non ho l’amore non sono niente —… e quando penso a mio figlio e ai figli suoi che mi stringono le dita e giocano con me a guardie e ladri… penso a tutta la cattiveria alla quale andranno incontro, alla mediocrità, alla rapacità, alla violenza della quale è capace una grande parte dell’umanità ricca… è a quei bambini che penso e ai poveri della terra… e allora sogno di andare a costruire un mondo in cui ogni uomo, senza eccezione di razza, di religione, di nazionalità… possa vivere una vita pienamente umana, liberata dalle schiavitù che gli vengono da altri uomini… fuori dall’amore non c’è salvezza.
La Teologia della fotografia di strada (che facciamo nostra) si riconosce nella pedagogia degli oppressi che unisce teoria e prassi e secondo l’insegnamento di Paulo Freire, tende a modificare la relazione tra l’uomo oppresso e l’ambiente che lo circonda. La coscienza critica della fotografia di strada come teologia di liberazione, trova un suo linguaggio e diventa essa stessa icona o traccia di trasformazione radicale della società ingiusta. “Indicami qualcuno che ami ed egli comprenderà quello che sto dicendo. Dammi qualcuno che desideri, che cammini in questo deserto, qualcuno che abbia sete e sospiri per la fonte della vita. Mostrami questa persona ed ella saprà quello che voglio dire” (Agostino, il berbero).
La teologia della fotografia di strada si oppone alla violenza istituzionalizzata e non si scandalizza che contro la violenza ingiusta degli oppressori, possa sorgere la violenza giusta degli oppressi. Quando l’ingiustizia ha posto al suo servizio la legalità, l’ordine, il diniego… le classi povere private del diritto alla voce, alla dignità, alla presenza… alla fotografia di strada non resta che lavorare per un’educazione liberatrice e passare dalle condizioni di vita inumane a condizioni più umane, con ogni mezzo necessario.
La teologia della fotografia di strada esprime — sotto ogni forma estetica/etica— la denuncia dell’ingiustizia e delegittima il sangue versato e rimasto impunito dell’ordine dominante. È l’amore dell’uomo per l’uomo che libera gli schiavi, fa crollare gli imperi e solleva gli oppressi. Il silenzio o l’accettazione dello sfruttamento dei deboli da parte dei potenti, passa attraverso il consenso massmediatico e le preghiere di sterminio sono deposte sugli scaffali dei supermercati e nei parlamenti… si tratta di cogliersi come uomini planetari non ancora realizzati che rifiutano di vivere in una società alienata e si schierano a fianco degli esclusi. La liberazione degli affamati, degli offesi, degli umiliati… è prima di ogni cosa un atto politico. È la rottura con una realtà di sfruttamento e di povertà estrema, l’inizio della costruzione di quella società giusta e fraterna che molti uomini, molte donne tengono nel cuore. La liberazione degli oppressi passa dalla difesa dei diritti fondamentali dei poveri, il castigo degli oppressori e la restituzione dei beni che hanno loro sottratto in secoli di vessazioni, saccheggi e genocidi.
La teologia della fotografia di strada non ha altra bellezza se non quella di aiutare a spezzare le catene della malvagità, sciogliere i legami del giogo, dare libertà agli oppressi… dividere il tuo pane con l’affamato, vestire chi è nudo e non voltare le spalle al tuo simile, diceva Isaia, è ricordare ad ogni essere umano che la liberazione autentica sarà opera degli oppressi o non sarà. Una teologia della speranza è, nel contempo, una teologia della risorgenza o dell’insurrezione. Non c’è storia della politica se non c’è storia della libertà.
La teologia dell’utopia possibile è il canto più estremo della liberazione dell’uomo da se stesso. L’utopia non è solo il sogno di uguaglianza nella diversità e godimento dei beni comuni, che non prevede nella sua affabulazione né servi né padroni… l’utopia è anche una denuncia dell’ordine esistente e l’eresia più concreta che sta al fondo dell’utopia è rifiutare la brutalità dei valori correnti e annunciare le “primavere di bellezza” che saranno e che ancora non sono… il presagio di una comunità differente e di una differente società di armonia. La teologia della fotografia di strada lavora sull’immaginario liberato. Il passaggio dalla poesia alla vita quotidiana impone un salto di qualità, una rottura con l’ordine dell’ingiustizia, l’intervento dell’immaginazione contro i disegni salvifici della civiltà dello spettacolo e dice: la mia parola è no!
La Teologia della fotografia di strada o di liberazione dell’immaginario assoggettato… esprime una poetica che include il punto di vista dei poveri. La Teologia della fotografia di strada è anche una teologia dei diritti umani che disvela il sistema dei poteri politici e mostra che la politica coloniale è figlia della politica industriale. Non esiste nessun uso innocente dell’immagine e della libertà. Potere significa oppressione, dominazione, costrizione. La democrazia dell’uguaglianza ha per fine la partecipazione degli uomini alla vita comune. In una società di liberi e uguali ciascuno è l’espressione della propria capacità di amare l’altro… ed è parte fondante della società di mutuo soccorso alla quale aspira.
La Teologia della fotografia di strada emerge dalla lezione etica di poeti del disagio rovesciato come Riis, Hine, Sander, Vischniac, Capa, Modotti, Smith, Cartier-Bresson, Lange, Evans, Shahn, Arbus, Weegee, Frank, Koudelka, Salgado… contiene una teoretica della dissidenza che si scontra con l’ortodossia o sovra-identità delle democrazie dello spettacolo che distruggono legami sociali e seppelliscono culture e memorie storiche. “Un popolo che venga generalmente maltrattato contro ogni diritto non deve lasciarsi sfuggire l’occasione in cui può liberarsi delle proprie miserie, scuotendo il pesante giogo che gli viene imposto con tanta ingiustizia… dimodoché le rivoluzioni… non si verificano in uno Stato per colpe leggere commesse nell’amministrazione degli affari pubblici… Quando in realtà si verificano colpe gravi, il popolo ha il diritto di resistere e difendersi” (Hannah Arendt)1. Ogni forma di rivoluzione è sempre in primo luogo distruzione dell’antico regime.
La fotografia, tutta la fotografia, “porta il suo referente con sé” (Roland Barthes) e quando è grande, coglie il significante fotografico. La cattiva fotografia marcisce di banalità splendenti e permea l’oggetto della sua attenzione nella celebrazione del mondano (Stieglitz, Steichen, White, Kühn, Newton, Hamilton, von Gloeden, Araki, Lachapelle, Warhol e la quasi totalità della fotografia italiana…). Ogni fotografia è una traccia della propria cultura o della propria stupidità. A leggere le opere dei grandi maestri si comprende che la Fotografia non si riconcilia con la società nel mito spettacolarizzato bensì ne smaschera le brutture o l’effimero. La storia della fotografia come stupore, rimanda al cambiamento del luogo comune e fa del dolore degli altri (direbbe Susan Sontag), l’istante di un’adesione o, meglio ancora, il vero bene, che è un atto morale. Scoprire il nostro non-sapere nell’uguaglianza del sentire è un gesto d’accoglienza. La fotografia randagia (o di strada) accetta i propri limiti e getta uno sguardo radicale al di là del visibile. La fotografia di strada è desiderio di qualcosa che non si possiede e a cui si aspira… rifiuta i simulacri che riconoscono la politica, la fede o la cultura come criteri del successo che legittimano la sola felicità possibile nella società data. La fotografia di strada custodisce lo sguardo, come il ribelle l’utopia, l’una e l’altro sono depositari dell’indicibile e l’attimo della loro diserzione da tutto quanto è merce o ideologia, segna l’interrogazione dell’ordine costituito.
La fotografia di strada o quella più genericamente di “impegno sociale”, coglie ciò che emerge dall’apoteosi dell’apparenza. In questo senso, tutta la fotografia non addomesticata è una sorta di denuncia del quotidiano aggredito e lavora alla sovversione dell’immagine, della parola, della legge (dell’imposizione dei codici dominanti)… la fotografia che affronta il sangue dei giorni passa attraverso l’arbitrarietà d’una scelta, la quale si presenta sovente come linguaggio rovesciato. La fotografia esiste per rompere l’egemonia della quotidianità impoverita o per prolungarla, diceva.
La fotografia di strada ha la capacità straordinaria di spaccare il tempo della replica, di liberare il tempo fertile del falciare ciò che è stato coltivato e divampa dalla brace della sovversione dei generi. Niente è sacro, tutto si può profanare. L’istante inchiodato dalla fotografia nella storia dell’uomo è parola, strappo, disaffezione con il silenzio prolungato del dire… non c’è fotografia del sociale se non al prezzo d’una rinuncia… la fotografia come distruzione dell’immaginario edulcorato è una seminagione di bellezza, un segno eversivo, una magnifica ossessione che travalica i limiti della realtà eccessiva o un’audacia visionaria che sborda fuori dai confini improvvisati della genuflessione artistica. C’è eternità solo nel desiderio, nel piacere, nella passione dei bastardi senza patria che vivono e muoiono al di qua o al di là di tutte le frontiere, perché sanno bene che “il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie” (Orizzonti di Gloria, 1957, di Stanley Kubrick). La fotografia di strada arrossa la vergogna del potere e mostra il divenire dell’umanità in un letamaio.
II. Della fotografia di strada
La fotografia muore di fotografia. La follia per la “bella fotografia” nasce da una cattiva educazione all’immagine che l’impero dei mass-media ha disperso nell’immaginario collettivo. L’ignoranza dei fotografi (specie i più foraggiati dalle marche di fotocamere, dalle gallerie del mondano o dalle aziende di calendari) è abissale. Credono di sapere tutto sul valore degli attrezzi di lavoro, sulle sensibilità delle pellicole, sull’avanzare del digitale nella presa del potere della fotografia da parte del popolo… e insieme ad una marea montante di squinternati che si attaccano al collo, come un giogo, la macchina fotografica e imperversano a ogni angolo delle metropoli, delle campagne o nei viaggi specializzati nel turismo sessuale sui bambini… non si accorgono che la loro cecità creativa è una sorta di schiavitù e di genuflessione ai riti e ai codici della società dello spettacolo.
“Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano. Egli regna ovunque; egli esegue le sue sentenze sommarie” (Guy Debord).2 La storia della fotografia consumata non mostra l’inefficacia delle fotografie per la conquista di un’umanità migliore, è soltanto la somma delle vanità mercantili smerciate come “avvenimento” artistico.3 Di contro, la fotografia di strada insorge nella poetica randagia che la fotografia insegnata non è, né conosce. La verità spettacolare manifestata nell’impostura delle ideologie e delle fedi è il teatro delle maschere, dove l’uso manipolato della creatività cancella la selvatichezza della vita quotidiana e la principale produzione della società attuale è lo spettacolo. Ai quattro venti della terra il falso ha preso il posto del vero e il consumo delle immagini fa del cattivo uso della verità o della poesia, la distruzione della memoria storica.
Il dominio dello spettacolo è tentacolare. Arriva ovunque e ovunque l’umanesimo della merce si è sostituito ai soggetti sociali. Nel tempo dell’inganno universale dire dell’amore dell’uomo per l’uomo è un atto rivoluzionario, forse. Fuori dalla soggezione dell’arte deposta nei confessionali dei tiranni e dei papi… Velàzquez, Goya o Caravaggio hanno magnificato la diversità come ricchezza sociale e sostenuto che l’arte è nella strada, e quando celebra il sacro o il mito soltanto, non è che la caricatura di se stessa o semplice genuflessione al potere. Carl Th. Dreyer, Georg W. Pabst, Robert J. Flaherty, Luis Buñuel, Jean Vigo o Pier Paolo Pasolini… si sono distinti sullo schermo argentato con la stessa autorialità dei banditi di confine e si sono fatti disertori dell’ordine costituito. Avevano compreso che si credeva di lottare per la giustizia, l’eguaglianza, la libertà, ma nei fatti si lavorava alla costruzione dell’imperialismo economico. In questo senso hanno rovesciato l’ordine dei bisogni e opposto lo sguardo dei piaceri fuori dal forcipe delle ideologie.
Nell’epoca del mercato globale ogni guerra è giustificata dalle promesse dei governi dei Paesi ricchi. Il genocidio continua. Dopo Auschwitz, Hiroshima, i gulag (nazisti, sovietici, cinesi)… il linguaggio delle armi ha preso il posto della ragione e i canti dei poeti e i pianti dei bambini sono seppelliti nella distruzione di massa dei popoli impoveriti. I limiti etici del profitto non hanno confini. I veri “nemici” dell’umanità sono i rigidi trattati di libero commercio, le armi nucleari, le tecnologie produttive basate sulla violenza, l’ingegneria genetica, le guerre del petrolio e dell’acqua, lo sviluppo del neocolonialismo di pace… “Il terrorismo è la guerra dei poveri, la guerra è il terrorismo dei ricchi” (Frei Betto, diceva). Maledette siano le guerre e le canaglie che le fanno.
La fotografia di strada è una scrittura visuale dei corpi. È un viaggio o un ritorno verso i valori dell’umanesimo, riconosciuti o fissati nella storia in un’immagine che è in grado di reinventare l’unicità dei ritrattati. Lewis Hine, August Sander o Diane Arbus, lavorando su visioni diverse dell’esistente, sono giunti al medesimo fine: non basta più trasformare il mondo, perché esso muta di pelle con le truccherie e i tradimenti delle politiche dominanti. Si tratta di interpretare adeguatamente questo mutamento affinché esso non produca il regno degli idioti che emerge dalla civiltà che si autodefinisce “moderna”.
La lettera sull’”umanismo” di Martin Heidegger (che va presa con le dovute precauzioni, data la sottomissione, mai smentita, al nazismo dell’autore), lo studio sul potere di James Hillman, il trattato del saper vivere ad uso delle giovani generazioni di Raoul Vaneigem o la critica radicale della società dello spettacolo di Guy Debord… dicono che “il linguaggio è la casa dell’essere. Nella sua dimora abita l’uomo. I pensatori e i poeti sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestatività dell’essere; essi, infatti, mediante il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la custodiscono” (Martin Heidegger).4 La fotografia di strada, dunque, ruota intorno alla liberazione del linguaggio dalla grammatica per inserirlo in una struttura, figurazione altra, più essenziale, più originaria o poetica al pensare. Il fare-fotografia di strada significa fissare la verità dell’essere nella sua temporalità. Non si tratta di fotografare l’uomo, ma di fotografare questo uomo e come sta al mondo.
La fotografia (come la macchina/cinema, la televisione, la telefonia, la carta stampata, internet — usata malamente —, i giocattoli o i cannoni…) esprime i luoghi e l’anima del potere e all’interno della teocrazia dei produttori di consenso, vive dappertutto tranne che nella Fotografia. La fotografia è un dio dei messaggi, della comunicazione, degli scambi commerciali, delle truffalderie politiche… cela che tutto quello che verrà sarà simile a quello che è già avvenuto. La rivolta degli schiavi è rimandata. La dimensione del potere subordina ogni forma di socialità con le esigenze del mercato e non tiene conto del regno dello spirito, di quel volo verticale verso l’emozione solitaria che si manifesta come libertà e rispetto dell’uomo. “Il potere spirituale può anche dormire nel villaggio e camminare con i lavoratori, perché questo genere di potere non è contaminato dai fatti della vita. È al di sopra del denaro, al di sopra del prestigio e della fama. La sua autorità è suprema o, per meglio dire, la supremazia è la sua autorità” (James Hillman).5 Andare avanti significa andare verso le periferie invisibili della terra, verso la fame dei popoli maltrattati, e indietro, verso il dolore degli altri.
Il liberalismo delle idee, strano a dirsi, non ha mai voluto dire rispetto per i diritti umani dei più deboli e tolleranza del libero pensiero. Le politiche delle società “evolute” hanno pianificato le relazioni sociali e con il clamore delle forche hanno imposto un rigore della permissività fondata sulla violenza e il crimine istituzionalizzato. “Non siamo mai usciti dal tempo dei negrieri” (Raoul Vaneigem).6 Di più. La società spettacolarizzata non ha solo trasformato servilmente la percezione, ma soprattutto ha fatto del monopolio dell’apparenza, la ricostruzione e il confortorio dell’illusione religiosa. “L’insieme delle conoscenze che continua attualmente a svilupparsi come pensiero dello spettacolo dove giustificare una società senza giustificazione, e porsi come scienza generale della falsa coscienza” (Guy Debord).7 Il sistema spettacolare esprime una sotto-comunicazione diffusa che smussa i conflitti sociali e ri/produce spettatori o complici. Quando alcuni storici, galleristi o critici della fotografia — iscritti nei gazebi dei saperi accademici o dell’avanguardia del vuoto — ci hanno chiesto a cosa serve, nell’epoca della tecnologia satellitare, la fotografia di strada, abbiamo risposto — a niente, come Mozart! —.
III. Della filosofia dell’angelus novus
La poetica ereticale della fotografia di strada è una scrittura iconografica del diverso che avanza sulle macerie del banale che crolla. È la fotografia dell’angelus novus che si appropria della filosofia dello stupore di Immanuel Kant, Karl Jasper o Walter Benjamin e congela lo spazio e il tempo fuori dai “segni” dell’impotenza e dell’imposizione. La realtà non nasce dalla nostra coscienza e non ha nulla a che fare con essa. Resta a noi sconosciuta e inconoscibile, forse. La coscienza è sempre coscienza di qualcosa che rovescia le categorie della conoscenza date. Alla maniera di Giordano Bruno: L’atto che ci rende liberi da ogni forma di soggezione culturale/politica è sempre una rottura (il mistero del mondo finito è dentro di noi e quello del mondo infinito — finalmente degno dell’Uomo — si manifesta nella bellezza che l’uomo può incontrare nella natura, nell’arte, nella sorgività dell’essere). In questo senso la finalità senza fine di Kant s’intreccia alla libertà dello spirito di Jasper e al risveglio dell’esistenza di Benjamin. Il linguaggio (in)diretto, metaforico, casuale… della fotografia di strada figura dunque, la felicità sofferta e quella possibile.
Nel fare-fotografia di strada, il momento dell’angelus novus è un colpo di dadi sul culo della storia. Conferisce all’istante scippato alla particolarità del qualunque, l’aura del singolare, dello straordinario, del fatato… è una rottura del consueto e in una specie di lotta amorosa tra ritrattato e fotografo, la comunicazione di un’esistenza che s’intreccia con un’altra esistenza e tutto ciò dà vita ad una filosofia della meraviglia che fa dell’esperienza del limite, lo strappo con tutte le scritture cifrate, decifrandole.
Walter Benjamin (García Lorca, Paul Klee, Wallace Stevens, anche…) ha trattato l’avvento dell’angelus novus come forza profetica che disvela le figure delle catastrofi annunciate nella società opulenta e nei giardini dorati dell’arte. Il Giudizio dell’angelus novus sta nel suo sguardo radicale e nel terrore di verità che porta con sé. Al culmine delle rovine che annuncia, si fa forte il suo stupore estremo che si oppone o si chiama fuori non solo dai possessori della storia del potere ma anche da quelli che l’adorano. Il suo messaggio riguarda tanto il presente non condiviso, quanto il divenire libertario verso il quale s’invola.8 L’angelus novus di Benjamin, come l’angelo del meraviglioso di Herbert George Wells,9 sa benissimo che in questa società non c’è posto per gli angeli, tuttavia la discesa degli angeli dell’arte sulla terra è una specie di specchio dove si riflettono le ingiustizie della società umana. Il “lievito” della ribellione che l’angelus novus porta con sé, si scaglia contro la civiltà del profitto e dell’ipocrisia e denuncia il rovescio dell’eterno nell’immaginale degli uomini.
Cogliere l’immaginario dal vero o rubare l’istante dell’angelus novus nell’Apocalisse dell’ordinario, non è cosa facile. Henri Cartier-Bresson, August Sander o Diane Arbus sono, forse, i soli passatori di confine, i franchi tiratori della fotografia sociale che hanno profanato la forma pittorica prestata alla fotografia e affabulato un’etica dell’arte fotografica senza eguali. La loro opera è lì a sottolineare che la fotografia in forma di poesia è l’epifania del tragico scippata alle macerie della storia. È nel contempo la domanda e la risposta dell’accadere di fronte alla fotocamera. Per significare il mondo occorre scegliere la parte contro la quale stare. Fotografare vuol dire tenere nel più grande rispetto se stessi e i ritrattati che abbiamo di fronte, senza dimenticare mai che è indecoroso uccidere i bambini per febbre di fame, anche con la fotografia.
La fotografia di strada è la costruzione di un percorso che segue l’istinto del gatto, l’intuizione dell’aquila, la passione ereticale dei cuori in amore… si tratta di costruire una situazione in rapporto con quello che si percepisce. La macchina fotografica (per noi) è uno strumento di conoscenza e non un grazioso giocattolo meccanico: “Fotografare è trattenere il respiro quando tutte le nostre facoltà di percezione convergono davanti alla realtà che fugge: in quell’istante, la cattura dell’immagine si rivela un grande piacere fisico e intellettuale.
Fotografare è mettere sulla stessa linea di mira la testa, l’occhio e il cuore” (Henri Cartier-Bresson).10 Tutto vero. La bellezza della fotografia non addomesticata ai linguaggi dominanti, non è quella che proviene dallo studio delle “belle arti” ma quella che contravviene o si oppone all’esposizione della banalità del male. Ogni ritratto è un autoritratto. È la scoperta di se stessi per mezzo della fotocamera e discorso sul mondo. “Il fotografo saccheggia e insieme conserva, denuncia e insieme consacra” (Susan Sontag).11 Su questi crinali estetici, mai considerati nella loro reale portata eversiva, la Neue Sachlichkeit (che traduciamo arbitrariamente in nuova cosalità) tedesca degli anni ’20 (in modo particolare la fotografia di Heinrich Zille), ha figurato la dignità della sofferenza e si è imbattuta una poetica del dolore che non è predazione, ma contaminazione e condivisione fuori dal simbolico e dal moralismo d’accatto. La fotografia sociale così fatta, ha destituito la mistificazione della realtà per destare le intemperanze generazionali e mostrare che questo non è il migliore dei mondi possibili.
IV. Della società che viene
La società dello spettacolo è contemporaneamente il risultato e il progetto del modo di produzione esistente, diceva. La scrittura fotografica non sfugge al ruolo di domesticazione sociale, quanto al risveglio delle coscienze. Dentro e fuori la fotografia resta l’uomo liberato da ogni identificazione con il modello dominante e la pratica dell’accoglienza, della fraternità e dell’uguaglianza è il non-luogo (in utopia) dove si manifesta l’autentico. “Forse il solo modo di comprendere questo libero uso di sé, che non dispone, però, dell’esistenza come di una proprietà, è quello di pensarlo come un abito, un ethos. Essere generati dalla propria maniera di essere è, infatti, la definizione stessa dell’abitudine (per questo i greci parlano di una seconda natura): etica è la maniera che non ci accade né ci fonda, ma ci genera. E questo essere generati dalla propria maniera è la sola felicità veramente possibile per gli uomini” (Giorgio Agamben)12 della società che viene.
La fotografia di strada è una scrittura dei corpi. La figura umana significa il vero, è l’immagine che brucia la copia. La decostruzione della simulazione iconografica fortifica le differenze in difesa della dignità dei senza voce ed emerge dal grigiore dei grandi magazzini della cultura di massa come un grido di vendetta. Lo statuto indicale della ritrattistica fotografica recupera memoria e immaginario, e se ne frega di assumere “un’attenzione-tensione costante a ciò che è esterno alla coscienza individuale, al mondo, ovvero al «mondo dopo la fotografia», come lo chiamava Robert Smithson”.13 Fare una fotografia è un modo per ri/scrivere la realtà, per toccare qualcuno che è entrato nel nostro sguardo e ha donato la sua anima alle nostre carezze. Gilles Deleuze,14 Jean Baudrillard,15 Mario Perniola,16 hanno bene analizzato l’era della società omologata e sono arrivati alla conclusione che il corpo è sempre più intrappolato nell’immagine che riproduce di sé e si trascolora nell’immagine di un immagine: in un simulacro.
Il détournement dell’arte come simulacro della merce, esige una fattualità del piacere che incrocia il sentire dei soggetti con la poetica dell’artista. L’arte è stata al servizio dei potenti sul filo dei secoli e, sovente, la mediocrità è stata celebrata al posto della poesia. Il tanfo del prestigio si bagna nell’acqua sporca del profitto. Tutto è permesso, perché niente è vero dell’arte mercificata. Il rovesciamento dell’arte alla rovescia passa per il soffio creatore dell’utopia e solo l’innocenza e la felicità degli angeli tentatori hanno disvelato nella storia dell’arte e nel divenire dell’uomo nuovo, che l’arte devota alla merce si porta dietro anche la sua putrefazione.
Tutti possono vedere gli angeli, i demoni, gli aiutanti nelle lacrime dei forti, nel sorriso dei bambini o nella malinconia dei poeti… la deriva dell’arte fotografica ci porta sul Boulevard delle passioni estreme, dove ogni gesto si carica del destino degli altri e mette in relazione la fotografia con la predica storica dell’infamia. Nel tempo incanaglito dello spettacolo come forma normale di delirio, “l’immagine fotografica è sempre più che un’immagine: è il luogo di uno scarto, di uno squarcio sublime fra il sensibile e l’intelleggibile, fra la copia e la realtà, fra il ricordo e la speranza” (Giorgio Agamben).17 Il giorno del giudizio è rimandato. Le fotografie di strada somigliano ai volti dei maestri carbonari, degli angeli ribelli o dei messaggeri delle stelle che non sempre conoscono i contenuti delle lettere/icone delle quali sono portatori… ma saranno proprio loro a non fa dimenticare il perduto, a ritemprare in noi il dimenticato, a metterci in relazione con la memoria popolare sfigurata sui marciapiedi della storia e a preparare il regno dell’amore dove ciascuno è principe di sé.
Dal vicolo dei gatti in amore, 15 volte novembre 2006/ 2 dicembre 2012
1Citazione a memoria.
2Guy Debord, Commentari sulla società dello spettacolo, Sugarco, 1990
3Pino Bertelli, Contro la fotografia della società dello spettacolo. Critica situazionista del linguaggio fotografico, Massari Editore, 2006
4Martin Heidegger, Lettera sull’«umanismo», Adelphi, 2005
5James Hillman, Il potere. Come usarlo con intelligenza, BUR, 2003
6Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle nuove generazioni e altri scritti, Massari Editore, 2004
7Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979
8Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di Renato Solmi, con un saggio di Fabrizio Desideri. Einaudi, 2006
9Herbert George Wells, La visita meravigliosa, Mursia, 1996
10Henri Cartier-Bresson, L’immaginario dal vero, Abscondita, 2005
11Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine della nostra società, Einaudi, 2004
12Giorgio Agamben, La comunità che viene, Bollati Borighieri, 2001
13Elio Grazioli, Corpo e figura umana nella fotografia, Bruno Mondadori, 2000
14Gilles Deleuze, Empirismo e soggettività, Cappelli, 1981
15Jean Baudrillard, La società dei consumi, Il Mulino, 1976
16Mario Perniola, La società dei simulacri, Cappelli ‚1980
17Giorgio Agamben, Il giorno del giudizio, Nottetempo, 2004