Dall’interno di un’esperienza con i profughi
CAMPIGLIA 30 giugno 2015 — L’arrivo di richiedenti asilo ha già interessato ed interesserà la Val di Cornia ponendo problemi nuovi rispetto a quelli che l’immigrazione ha già posto da tempo. Giacomo Poeta, 29 anni, coordinatore della Cooperativa Odissea di Capannori presieduta da Valerio Bonetti, sta seguendo un gruppo di richiedenti asilo che sono stanziati a Venturina. Lo abbiamo intervistato per capire meglio le procedure per le richieste e le concessioni di asilo, il ruolo e le responsabilità delle cooperative sociali i diritti ed i doveri dei richiedenti asilo.
Cos’è la cooperativa sociale Odissea e come ci sei arrivato?
E’ un progetto nato nel 2007 per dare una risposta concreta al tema dei migranti, dei richiedenti asilo e della loro integrazione nel nostro mondo. Odissea si occupa anche di marginalità in senso lato, di mediazione sociale nei condomini di edilizia residenziale pubblica, di progetti di animazione ed educazione per giovani italiani e stranieri, mediazione linguistico-culturale nelle scuole, housing sociale. Gestisce inoltre da tempo lo sportello immigrati del Comune di Lucca e di Capannori. La Cooperativa Sociale Odissea opera nelle province di Lucca, Pisa, Livorno e Massa; dal 2014 ha avviato un progetto SPRAR (servizio centrale di protezione dei richiedenti asilo e dei rifugiati in Italia) con il Comune di Capannori. Io sono arrivato qua dopo essermi laureato in scienze politiche e relazioni internazionali; dopo la laurea triennale ho fatto un’esperienza a Londra: un tirocinio in una charity che faceva integrazione per i richiedenti asilo, rifugiati e senza tetto. Dopo di che mi sono iscritto al master in Analisi Prevenzione e Contrasto della criminalità organizzata e della corruzione. Nel frattempo attraverso il centro per l’impiego di Lucca ho saputo che c’era un ente che lavorava nell’ambito dell’accoglienza integrata dei richiedenti asilo, così portai il curriculum, ed eccomi qua.
In questi ultimi mesi si sta assistendo a migliaia di sbarchi ogni giorno: cosa sta succedendo e come è organizzato il nostro Stato in tema di richiedenti asilo?
Come è ormai chiaro stiamo assistendo ad un esodo di massa. Le ragioni sono molte: l’instabilità e la guerra in certi Paesi come la Siria, le povertà di altre zone africane ed infine lo sgretolamento del filtro che i Paesi del Nord-Africa facevano prima della primavera araba. Il nostro Stato si affaccia sul Mediterraneo ed è uno dei primi approdi per chi decide di partire. Secondo l’accordo di Dublino i soggetti richiedenti asilo devono presentare la domanda nel primo Stato in cui la persona viene identificata. La procedura prevede prima di tutto la foto ‑segnalazione e la raccolta delle impronte digitali. Il passaggio successivo è quello effettuato in questura dove viene compilato un modello chiamato c3 nel quale viene formalizzata la richiesta di asilo (richiesta di protezione internazionale) alla presenza di un mediatore linguistico culturale in grado di tradurre dalla lingua madre o veicolare (francese e inglese). Quindi proprio per quanto previsto dalla convenzione il soggetto deve rimanere nello Stato fino a che non si è concluso l’iter della richiesta. I soggetti, in questo percorso, sono assistiti da operatori legali.
Dopo di che cosa succede?
In attesa dell’esito della richiesta i profughi hanno bisogno di una prima assistenza e successivamente di un programma di integrazione (almeno per quanto riguarda la conoscenza della lingua italiana). In una situazione non di emergenza si opera attraverso il sistema centrale SPRAR , prima chiamato Piano Nazionale Asilo, introdotto con il Protocollo di intesa tra il Ministero dell’Interno, Anci e Acnur (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati) del 10 ottobre 2000 e poi con la bossi-fini chiamato SPRAR appunto; è diverso dall’emergenza. L’ente (cooperativa, associazione ecc) è affiancato dall’amministrazione locale e viene fatto un progetto territoriale per ottenere la gestione, l’ accoglienza e l’integrazione dei richiedenti asilo. Ovviamente c’è un bando triennale cui partecipano più amministrazioni comunali in concerto con enti che hanno esperienza in questo campo e con personale qualificato composto da psicologi, mediatori linguistico-culturali, operatori sociali e legali, insegnanti di italiano; una volta pubblicate le graduatorie i richiedenti vengono inseriti nelle strutture che il Comune ha individuato.
In parte funziona così. Quando e dove ci sono situazioni di emergenza (come quella che siamo vivendo adesso) invece le prefetture gestiscono l’emergenza indirizzando (nella migliore delle ipotesi) i profughi nei Comuni che danno la disponibilità all’accoglienza oppure (nella peggiore delle ipotesi) presso strutture individuate sul territorio da soggetti del terzo settore, senza aver previamente sondato l’apertura politica dell’amministrazione comunale interessata. È superfluo dire che l’efficacia e la capacità di funzionamento in stato di emergenza è ben diversa dai casi dove la cooperativa può gestire con facilità piccoli gruppi di migranti.
Quali sono i tempi per avere la risposta per il riconoscimento di status rifugiato politico?
La convocazione della commissione territoriale dovrebbe arrivare entro 30 giorni dalla formalizzazione della richiesta di asilo e la decisione nei tre giorni successivi; in realtà passano mesi e mesi. Se c’è diniego (né protezione internazionale né umanitaria), il richiedente può fare ricorso presso il tribunale ordinario, con tutti i gradi di cui si compone. Queste procedure possono arrivare a durare anche più di due anni. Non per tutto il periodo queste persone hanno diritto all’accoglienza. Accoglienza e diritto di permanere sul territorio sono molto diversi: su questo tema c’è un problema d’interpretazione che le varie prefetture continuano a non chiarire, sono loro che regolamentano questa materia. Non c’è una linea unica. Qualcuno dice che l’accoglienza deve concludersi successivamente alla notifica della decisione presa dalla commissione territoriale indipendentemente dall’esito, altri dicono che dura fino all’udienza presso il tribunale ordinario.
Nel caso della concessione dell’asilo (è un po’ complicato il discorso: spesso, ad esempio, succede che se ti riconoscono lo status mentre sei ospite di una struttura in emergenza poi ti trasferiscono in un centro SPRAR — che in questo caso diventa una seconda accoglienza, un secondo step di avvicinamento all’autonomia — nel quale puoi rimanere per altri sei mesi prorogabili; diciamo che dipende da quanto è durato l’Iter, dalla prefettura competente e dal servizio centrale) gli viene riconosciuto un permesso di soggiorno per 5 anni come status di rifugiato secondo l’articolo 1 della convezione di Ginevra, oppure protezione sussidiaria (anche in questo caso il permesso di soggiorno è valido per 5 anni) ove, non sussistano le condizioni per il riconoscimento dello status di rifugiato ma il richiedente dimostri che se tornasse nel suo Paese potrebbe subire un grave danno come ad esempio condanna a morte o tortura. La protezione umanitaria, invece, viene riconosciuta in caso di catastrofi o problemi di salute ed il permesso di soggiorno dura un anno.
Quindi vuol dire che quando cessa l’accoglienza e sono sub iudice rimangono a piede libero nel nostro territorio?
Sì, questo può essere un problema. Un ente gestore virtuoso cerca di garantire una buona uscita in modo che il rifugiato non sia totalmente abbandonato a se stesso. In questo senso ci aiuta il programma giovaniSì della Regione che dà contributi a chi assume un soggetto titolare di protezione internazionale.
Le commissioni territoriali sono composte da un rappresentante della polizia di stato, un ente territoriale, un funzionario della prefettura, e uno dell’Unhcr (Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati); il numero di queste commissioni in Italia, però, è nettamente insufficiente rispetto alla reale necessità. C’è da dire poi che molti di quelli che arrivano vorrebbero andare in altri Paesi del Europa settentrionale ma sono bloccati dalla convenzione di Dublino. Anche chi riesce ad arrivarci, se gli sono state prese le impronte digitali e inserite nel sistema condiviso e viene identificato dalla polizia dello stato, viene rispedito in Italia.
Cosa succede se un richiedente asilo ospitati in una struttura la abbandona? Sono ancora considerati richiedenti asilo anche se non hanno ancora ottenuto la certificazione di rifugiati politici?
Nel caso in cui i richiedenti asilo abbandonano la struttura per più di tre giorni, l’ente gestore comunicherà quanto accaduto alla prefettura e non percepirà più la retta giornaliera erogata dal Ministero per quell’ospite. Tuttavia, una volta segnalata la fuoriuscita dal progetto da parte dell’ospite, la prefettura disporrà l’arrivo in struttura di un nuovo richiedente asilo per il quale verrà nuovamente erogata all’ente gestore la retta giornaliera di 30–35 euro per la fornitura dei servizi connessi alla prima accoglienza. Ovviamente una volta abbandonata la struttura, il richiedente asilo non può più rientrarvi.
Coloro che abbandonano la struttura, nella misura in cui hanno già formalizzato la richiesta di protezione internazionale presso la questura, certamente rimangono richiedenti asilo. In base alle convenzioni internazionali, la loro domanda non può essere ritirata da nessuna istituzione nazionale a meno che non si rendano colpevoli di gravi reati penali. Tuttavia, nel caso in cui il richiedente asilo non ha più un domicilio di riferimento diventa problematico per l’interessato procedere al rinnovo del permesso di soggiorno rilasciato in attesa dell’audizione presso la Commissione Territoriale (il primo permesso di soggiorno scade dopo tre mesi dal rilascio) visto che, per poter procedere al rinnovo, deve presentarsi in questura con una dichiarazione di ospitalità firmata dal responsabile della struttura. Comunque, tale dichiarazione può essere fatta anche da chiunque (magari un connazionale da tempo in Italia) ospiti presso la propria abitazione un richiedente protezione internazionale quindi, seppur con qualche difficoltà, si tratta di un problema risolvibile.
Anche nella misura in cui cessi il diritto d’accesso al servizio di prima accoglienza ed annessi, il richiedente asilo conserva il diritto a rimanere sul territorio italiano fino alla conclusione dell’iter di riconoscimento della protezione internazionale. L’Iter consta di:
1)audizione presso la commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale;
2) se l’esito dell’audizione è il diniego, segue la fase del ricorso presso il tribunale ordinario e quindi l’udienza;
3) nel caso il giudice non riconosca alcun tipo di protezione il richiedente presenta un ulteriore ricorso in Appello;
4) qualora anche in Appello la sua richiesta venga respinta egli può in ultima istanza ricorrere in Cassazione, la quale ha l’ultima parola. Per il ricorso in Cassazione, le spese di rappresentanza legale sono a carico del richiedente asilo, mentre nei gradi di giudizio precedenti l’avvocato può richiedere allo Stato il gratuito patrocinio per la copertura delle stesse.
Quali sono le nazionalità dei migranti e il loro livello di istruzione?
Sono le più disparate: Africa occidentale, Costa d’avorio, Nigeria, Mali , Guinea, Gambia, Senegal Casamance dove, ad esempio, c’è il Mouvement des Forces Democratiques che lotta con il governo centrale da anni, Africa orientale, Somalia, Eritrea. Tendenzialmente quelli che vengono dalla Siria non chiedono aiuto all’Italia, riescono ad eludere le procedure, a Milano c’è una comunità che li ospita e li supporta nel viaggio verso il nord Europa essendo famiglie anche benestanti.
Stando ai dati relativi al 2014, in Italia, i richiedenti asilo provenienti dalla Nigeria sono in numero maggiore rispetto a quelli provenienti da altri Paesi.
Per quanto riguarda il livello di istruzione per la maggior parte è molto basso, c’è anche qualcuno che invece ha studiato, come un ragazzo che è nella nostra comunità e parla molte lingue: inglese, arabo, francese e tante lingue dialettali e potrebbe essere formato per ricoprire la posizione di mediatore linguistico.
Quali sono le loro aspettative?
Per quanto riguarda ciò che si aspettano dipende molto dal livello culturale: ci sono quelli che hanno solo voglia di scappare e trovare un lavoro per mandare le rimesse alla famiglia e ci sono altri che magari provengono da Paesi già più scolarizzati ed ambiscono a qualcosa di più.
Esiste un codice operativo cui vi attenete?
Sì, è il manuale operativo dello SPRAR che individua quelle che sono le linee guida per la gestione di un centro di questo tipo: i servizi che devono essere erogati, il corso di italiano, le qualifiche richieste per il personale impiegato (educatore professionale, mediatore linguistico-culturale, operatore legale, operatore sociale, psicologo) coordinati da un soggetto con provata esperienza sul campo
Cosa fa la vostra cooperativa?
Prima di tutto ci sono le problematiche sanitarie da risolvere; cerchiamo di occuparci dell’aspetto psicologico viste le condizioni in cui arrivano nel nostro Paese. Pensate che molte di queste persone partono dalla più profonda Africa con carovane di uomini, attraverso i deserti per arrivare sulle coste del Nord Africa e poi partire per un viaggio, che sicuramente non può essere definito una crociera…alcuni di loro non hanno mai visto il mare. Dopo di che c’è l’aspetto dei documenti: il primo permesso di soggiorno dura tre mesi poi viene rinnovato per altri tre, poi viene rilasciato un’ altro “per richiesta asilo-attesa lavoro”, infatti dopo sei mesi formalmente potrebbero lavorare; naturalmente la valutazione se può lavorare viene fatta dalla cooperativa, noi, ad esempio, abbiamo una graduatoria di merito e di competenze pregresse attraverso un bilancio, appunto, di competenze.
Quindi si procede ad attività come l’insegnamento dell’ italiano o altre attività sociali. Cerchiamo di lavorare con piccoli gruppi sparsi nel territorio regionale per evitare affollamenti che non hanno niente a che vedere con l’integrazione. Questo comporta da parte nostra maggiori difficoltà di reperimento e maggior impegno, perché chiaramente non tutti sono disposti a dare il proprio appartamento a richiedenti asilo, ma questo è il nostro metodo e crediamo sia più efficace rispetto a grandi centri di accoglienza.
Perché si dice che certe cooperative lucrano sull’accoglienza dei profughi?
È chiaro che se si prende un gruppo numericamente elevato di richiedenti asilo, li ospiti in un luogo fornendogli il minimo indispensabile, senza fornirgli tutti i servizi che invece andrebbero erogati: come il corso di italiano, assistenza psicologica, supporto all’accesso ai servizi socio-sanitari ecc. si risparmia molto e certi soggetti possono lucrare su queste persone.
Sembra che la situazione in Africa non vada migliorando: come vedi la situazione generale?
Noi purtroppo abbiamo la faccia sul Mediterraneo e si pone prima di tutto un problema di coscienza: vogliamo lasciar morire quelle persone in mezzo al mare? A breve termine, non si risolverà finché ci sarà il caos nel Medio — oriente e nell’Africa del nord. Una soluzione potrebbe essere quella di costituire dei campi profughi in quei Paesi di transito, ma ci vuole un forte coinvolgimento della comunità internazionale e chiaramente dei paesi coinvolti.
Le soluzioni che vengono prospettate da certi politici sono demagogiche e inapplicabili, la realtà è che il problema non è italiano ma di tutta l’Europa: finché ci sarà quest’atteggiamento di considerare il problema principalmente italiano dovremo gestire questa emergenza. Il primo atto che deve essere compiuto è la revisione del trattato di Dublino.
(Foto di Pino Bertelli)