Demolire sarebbe una ferita non più risarcibile
ROMA 9 settembre 2014 — E’ difficile sottrarsi alla provocazione, direi in primo luogo culturale, di due “visionari” come Paolo Benesperi e Massimo Zucconi. Cioè di due amici che, qualche anno fa, mi hanno fatto partecipare ad una vera e propria impresa: costruire un progetto culturale economicamente sostenibile (nel tempo) legato alla storia, all’economia e all’ambiente di Piombino e della Val di Cornia. Cioè quel progetto della Parchi Val di Cornia che, a prescindere da come è venuto evolvendosi e a prescindere dalla sostenibilità finanziaria realizzata, ha rappresentato un elemento di forte innovazione nel contesto locale piombinese.
Non era facile far pensare, in un’area dove anche l’industria è stata sempre vista come un prodotto difficilmente disgiungibile fra le dinamiche del Mercato e il ruolo dello Stato, che nella cultura, ed in particolare nella cultura produttiva del luogo, potesse fondarsi un progetto capace di creare ricchezza, occupazione e sviluppo.
Certo si parla di un “piccolo progetto”. Niente a che vedere con le grandi dinamiche legate al sistema produttivo industriale o a quello, mai lasciato ed ulteriormente ritrovato e rinnovato, dell’agricoltura di qualità, ma importante per il particolare spaccato nel quale si inseriva. E l’originario afflusso di risorse europee dirottate su questo progetto è una dimostrazione di come venisse visto al di fuori di Piombino, a Firenze ma anche nella lontana Bruxelles, la natura e l’innovatività dell’intuizione prima e quindi della prima realizzazione.
L’idea vincente partiva dall’idea di considerare la produzione energetica e siderurgica di piombino, che certo era un fatto dell’era moderna e contemporanea, come in qualche modo legata alla storia millenaria dell’area e quindi riconducibile da una parte e rafforzante dall’altra la cultura del luogo. Cioè quella “cultura del ferro” che era rinvenibile a Piombino dall’età degli etruschi fino ai giorni nostri. Era questa la suggestione che il sistema dei Parchi voleva sviluppare. Facendo del trinomio Cultura, Economia e Ambiente e delle relazioni fra questi elementi, che qui e solo qui si erano venute creando in un certo modo, l’asse portante della proposta culturale e quindi di attrazione turistica che metteva la città e l’area, forse per la prima volta, non come luogo da “passare” per andare altrove ma come luogo da “vivere e da visitare” per trovare, come in una sorta di immersione nel tempo, le origini dell’attività locale dell’oggi.
Quell’oggi che era ed è rinvenibile in primo luogo in quella visione infernale, dantesca, delle acciaierie che accolgono il passante con una accozzaglia di fumi, di rumori e di odori che danno il senso insieme, a chi ha occhi per guardare la fabbrica moderna non solo come ferita ambientale, della grandezza e della bassezza dell’uomo nei confronti della natura.
Senza entrare nella discussione, attuale e importante, della continuità produttiva di quella presenza industriale con tutte le ristrutturazioni, correzioni, distruzioni e ricostruzioni necessarie e inevitabili, concordo pienamente con Benesperi e Zucconi che sarebbe una ferita non più risarcibile al territorio e alla sua storia cancellare per sempre quelle strutture, quei macchinari, quelle disposizioni, quell’atmosfera produttiva senza lasciare una qualche traccia che tenga uniti assieme il passato,il presente e, chissà in che modo, il futuro di quella cultura del ferro che ha così segnato quest’area nel corso dei tempi.
E’ chiaro che una fabbrica e un luogo produttivo sono prima di tutto una attività umana. E come tale difficilmente “stoppabile” nel tempo e nello spazio angusto di una rappresentazione. Se è accettabile per un bene culturale, se è discutibile per un bene paesaggistico è evidentemente non proponibile la museizzazione di un luogo produttivo che ancora produce o può produrre ricchezza. Ma, se si condivide l’obiettivo che è appunto lasciare una traccia di come nel tempo si è evoluta e realizzata la cultura del ferro a Piombino e in Val di Cornia, penso che si possa trovare nell’ampia distesa della Fabbrica e delle sue pertinenze uno spazio da destinare a museo archeologico industriale che riesca a collegarsi con la storia umana e tecnologica di questa area.
E’ una sfida da accogliere, spero che il rilancio produttivo, che e’ la priorità assoluta, non sia un ostacolo ad aprire strade nuove nella realta’ culturale piombinese.
Forse prematuro per chi spera (per la verità con poche e/o limitate speranze) nella realizzazione di una nuova area a caldo (che implicherebbe la rimozione di vecchie strutture conseguenti alle necessità di riallineamento con gli impianti di laminazione esistenti e per i quali Jindal sta per presentare la sua offerta e — come da impegni verbali assunti con Renzi e Rossi — un piano industriale di sviluppo), ma assolutamente ineccepibile nei contenuti. C’è da considerare, però, anche tutta la partita che vede protagonisti ENEL, EDF-EDISON (Elettra), B&G Global Service e sembra di capire, lo stesso Jindal, per una centrale che dovrebbe produrre energia elettrica. A prescindere da ciò che verrà proposto, e che potrebbe anche vederci su fronti contrapposti (vedo già che ci sono coloro che colgono l’occasione per rilanciare una megacentrale a carbone sul nostro territorio), bisogna sapere che il litorale della Costa Est non è infinito, è impegnato da attività turistiche in espansione e sta cedendo nuove aree per il piazzale del porto rinnovato. Sarà problematico pensare a impianti (nuovi per la produzione e/o vecchi per la conservazione) affiancati magari da una megacentrale a carbone se solo pensiamo che quella di Brindisi — fra impianti di produzione, depositi per i carbonili, nastri trasportatori e strutture per il trattamento — copre da sola ben 270 ettari.