Ferro: pane e companatico per generazioni
PIOMBINO 16 ottobre 2012 — La lavorazione del ferro è nel Dna della fascia costiera che guarda l’Elba. L’abilità degli Etruschi fece della Vallata un riferimento nella siderurgia fin dalla notte dei tempi. Il golfo di Baratti ne è la testimonianza più eloquente. In epoche più recenti neanche a Piombino ma a Follonica prese campo l’arte di lavorare il metallo: la ricchezza dei boschi poteva fornire, in quella zona, la materia prima per il fuoco necessario alla fusione. Quando al carbone vegetale si sostituì il fossile d’importazione Piombino e il suo porto diventarono il naturale approdo per le nuove produzioni. Le miniere dell’isola d’Elba e il calcare pregiato delle cave campigliesi di Monterombolo favorirono lo sviluppo della siderurgia che per anni, insieme all’agricoltura, è stata, ed ancora è, una risorsa economica essenziale per l’intero comprensorio della Val di Cornia.
Di quella storia resta oggi la testimonianza dei tre stabilimenti del polo dell’acciaio di Pionmbino a cui si unisce, per altro verso, la centrale dell’Enel da cui si sono attese l’energia necessaria alle moderne lavorazioni e l’impiego di manodopera qualificata.
Magona: lo stabilimento della storia
Alla Magona (il nome, di origine araba, significa “azienda del ferro”) è legata gran parte della storia recente di Piombino e della Vallata. La nascita della fabbrica risale al 1865 quando un inglese di origini liguri, Joseph Alfred Novello, decise con altri soci, di impiantare a Piombino uno stabilimento che usasse la moderna tecnologica del convertitore Bessemer col quale si poteva produrre acciaio in un’unica soluzione. L’impresa non andò bene ma le cose migliorarono quando, una ventina di anni dopo, una cordata di trentatré soci rilevò la fabbrica e rivide la produzione: dall’acciaio alla banda stagnata che allora veniva usata per i contenitori in cui si conservavano gli alimenti. Nel 1905 la Magona entrò in borsa (verrà cancellata dalle quotazioni nel 1997) e più tardi superò agevolmente il primo conflitto mondiale impegnandosi nella produzione bellica.
Tra le due guerre
L’intervallo tra le due guerre fu segnato da una grande attività sociale della Magona che arrivò a contare 2000 dipendenti di cui 300 donne, e una produzione di oltre 200mila tonnellate annue di materiale tra grezzo e finito. È di quei tempi il consiglio «Prendilo è di Magona» che veniva raccomandato alle ragazze in odor di marito, corteggiate da un dipendente dello stabilimento. Le vacche grasse finirono però ben presto e l’immediato dopoguerra e i primi anni Cinquanta furono caratterizzati da consistenti conflitti sindacali. Con un piano del 1950 la produzione venne indirizzata soprattutto ai nastri di acciaio, i cosiddetti “coils”, laminati a freddo realizzati su materiale grezzo proveniente dallo stabilimento di Cornigliano, peraltro poco efficiente nel rifornimento della materia prima. Il piano Sinigaglia del 1947 ed il successivo piano Schuman determinano duri contrasti con un sindacato che nel frattempo si è irrobustito soprattutto dopo aver ottenuto il contratto nazionale di lavoro.
I grandi conflitti sindacali
Alla fine del 1951 i dipendenti della Magona erano 2773 ma già nel gennaio del ’52 ne vennero licenziati 600 con la riduzione delle ore lavorative settimanali da 42 a 24 e con la chiusura di due dei tre impianti di produzione. Fu l’inizio di una lunga stagione di scioperi con ritorsioni aziendali che giunsero perfino al licenziamento di coloro i quali avevano dato vita alla protesta, alla fermata del forno Martin e al rifiuto della proposta sindacale di ridurre i licenziamenti a 300 unità con orario settimanale a 32 ore e perfino con tre mesi di lavoro gratis. I contrasti dureranno a lungo: nel 1957 lo stabilimento raggiunse il minimo storico di dipendenti: 388. La luce alla fine del tunnel si vedrà solo nel 1959 quando i bilanci dell’azienda torneranno in attivo. Durante gli anni Sessanta si registrò un forte incremento delle tecnologie con la diversificazione delle produzione e negli anni Settanta venne messa in piedi una rete di società controllate con lo scopo di commercializzare il prodotto all’estero. Alla fine degli anni ottanta la Magona entrò a far parte del Gruppo Lucchini e nel 1998 fu ceduta interamente al gruppo francese Usinor che, tre anni dopo, si fuse con i lussemburghesi dell’Arbet e con li spagnoli dell’Aceralia dando vita a Arcelor. Nel 2006 una nuova fusione tra Arcelor e Mittal Steel Company portò alla nascita di Arcelor Mittal, un colosso mondiale che, oltre ad operare nell’acciaio, è tuttora leader di mercato nella fornitura di laminati per l’industria automobilistica. Oggi la Magona di Arcelor Mittal conta circa 545 dipendenti.
Lucchini: un primato per tanti anni
Secondo solo all’Ilva di Taranto, lo stabilimento della Lucchini, oggi inserito nel Gruppo Severstal, continua ad essere un polo di riferimento sopranazionale nel campo della siderurgia. Conta 2200 dipendenti che con l’indotto formano una realtà lavorativa di circa 4mila addetti. Tanti ma appena un lontano ricordo dei più di 10mila occupati del boom degli anni Ottanta quando lo stabilimento divenne un’occasione costante di richiamo di maestranze provenienti da diverse province toscane. La fabbrica si estende su un’area di oltre 12 chilometri quadrati su cui per anni ha insistito una produzione dall’innegabile forte impatto ambientale.
Lo sfruttamento dei giacimenti di ferro dell’Elba e delle miniere di calcare di Campiglia hanno favorito lo sviluppo di una lavorazione che continua a ciclo continuo.
Le partecipazioni statali
Decisiva è stata la stagione delle Partecipazioni statali che, soprattutto nel dopoguerra, hanno puntato sulla siderurgia e considerato il polo di Piombino come l’espressione massima per produzioni di alto valore qualitativo. Sotto l’Iri fino al 1992, la fabbrica ha mutato infinite volte denominazione (Fonderie di Piombino, Ilva, Finsider, Italsider, Deltasider, Acciaierie piombinesi, Acciaierie e ferriere) per poi attraversare una crisi che non si è attenuata neanche dopo la privatizzazione degli anni Novanta. L’arrivo dei bresciani del Gruppo Lucchini ha inizialmente alimentato speranze risultate poi vane: il ridimensionamento degli organici è stato costante, così come la progressiva diminuzione delle commesse. Il passaggio ai russi della Severstal, la forte esposizione bancaria, le perdite di bilancio e le incertezze per il futuro sono capitoli delle cronache di oggi.
Dalmine: la fabbrica giunta con il boom
La Dalmine è l’ultima arrivata nel polo siderurgico piombinese. Il suo stabilimento è stato impiantato nel 1960 a Ischia di Crociano, in un’area confinante con le acciaierie. Erano quelli i tempi delle partecipazioni statali ed anche l’industria bergamasca, specializzata nella produzione di tubi in acciaio senza saldatura, già dal 1933 era di proprietà dell’Iri e sotto la gestione della Finsider prima e dell’Ilva poi (1989). All’arrivo a Piombino la Dalmine contava 200 addetti. Nel 1996 gli olandesi della Tenet, Techint Investments Netherlands, del gruppo Tenaris, acquistarono dall’Ilva in liquidazione l’intero pacchetto della Dalmine Spa. Con successivi passaggi, nel corso degli anni, la Tenaris, società di diritto lussemburghese, è arrivata a detenere (2005) direttamente il 67,875% e indirettamente, tramite Tenet, il 31,330% della Dalmine. Il controllo azionario da parte del gruppo, anche dello stabilimento di Piombino, è oggi del 99,205%.
L’accordo del 2010
A settembre 2009 la Tenaris, nell’ambito del piano industriale per il biennio 2010-11, decise di chiudere il tubificio di Ischia di Crociano. Dopo una strenua trattativa, a maggio 2010 l’azienda sottoscrsse un accordo con la Regione Toscana e il Comune di Piombino grazie al quale si impegnava a continuare la produzione in Val di Cornia in cambio della realizzazione, da parte degli enti locali, di interventi infrastrutturali per migliorare lo stoccaggio, separare la parte commerciale da quella turistica e adeguare la rete viaria di accesso dallo stabilimento al porto. Oggi la Tenaris Dalmine conta 124 dipendenti.
Enel: la centrale di scorta
La centrale Enel di Tor del Sale ha festeggiato l’undici settembre scorso i suoi 35 anni di attività. L’impianto consta di 4 sezioni da 320 megawatt per una potenza totale di 1.280 megawatt ed è alimentata a olio combustibile denso. Attualmente a Tor del Sale lavorano 125 dipendenti mentre in una trentina si calcolano le maestranze dell’indotto. La centrale attualmente viene impiegata in un ruolo di supporto. Quando, infatti, come è successo più volte negli ultimi anni, l’Italia non riesce ad approvvigionarsi a sufficienza di gas dall’estero, la disponibilità di centrali che lavorino con l’olio combustibile è determinante per la sicurezza energetica del Paese e per evitare razionamenti negli usi industriali e domestici. L’Enel avverte la necessità di tenere ben funzionanti questo tipo di centrali per fronteggiare le eventuali emergenze dato che la pura e semplice vendita di energia non sarebbe sufficiente a coprire i costi fissi.
Carbone o metano?
Anche di recente il vicepresidente di Enel produzioni, Leonardo Arrighi, ha individuato nel carbone il possibile nuovo carburante per alimentare la centrale di Torre del Sale, escludendo di fatto la riconversione a metano. L’ipotesi del gas è invece sostenuta dagli ambientalisti e dal Comune di Piombino il cui sindaco, Gianni Anselmi, ha più volte ribadito che «l’ipotesi del carbone è impraticabile sul nostro territorio ed è già stata respinta ripetutamente dalle amministrazioni locali».