Il caldo rifugio del finanziamento pubblico
PIOMBINO 12 ottobre 2013 — Fra retorica, difese di un esistente che non esiste più, ipotesi irrealizzabili e rifiuto di guardare in faccia la realtà si sta avvicinando la fine o il forte ridimensionamento della siderurgia piombinese senza nessuna idea seria e già vagliata di possibile reindustrializzazione.
Brutto fatto che naturalmente non ha niente a che vedere con le preoccupazioni, la buona volontà i pensieri dei lavoratori e dei cittadini, ai quali però bisogna essere vicini con la cruda parola fatta di realtà e di verità non con la descrizione di affreschi che, senza il coraggio dell’assunzione di responsabilità, dipingono sogni impossibili, naturalmente con l’aggiunta della stucchevole precauzione che se i sogni non si avvereranno il colpevole starà sempre da altre parti.
Il ciclo integrale piombinese è indifendibile sia perché soffocato oggi da oneri che lo rendono improduttivo sia perché ricostruzione ed ammodernamento richiederebbero costi insopportabili da qualunque investitore.
La società commissariata è oppressa da debiti, senza soldi e in uno stato fallimentare non cancellato dalla procedura dell’amministrazione straordinaria.
L’azienda è strutturalmente in perdita e dunque non può che essere venduta.
Difficile trovare un investitore privato e così qualcuno aggira il problema pensando e dicendo che comunque ci può essere il pubblico a mettere i denari senza pensare che quando il pubblico ha finanziato imprese di questo tipo, e non solo recentemente e non solo qui, ha prodotto un disastro, tant’è che non a caso l’Unione europea, che vuol dire noi non altri, ha vietato gli aiuti di stato e stabilito che i finanziamenti pubblici possono essere utilizzati solo per la ricerca industriale o sperimentale, comunque per prototipi e non certo per la loro industrializzazione. Da cui deriva che quando si afferma con prosopopea che la siderurgia non può essere lasciata al mercato o quando si spaccia come impianto innovativo finanziabile ciò che da altre parti già funziona da anni nel mercato si raccontano storie.
Per non parlare delle complementarità legate ad un polo per la rottamazione delle navi che si presume addirittura imposto e magari finanziato dall’Unione europea senza dire che il ruolo dell’Unione europea, basta leggere la proposta di regolamento che abbiamo già a suo tempo pubblicato (per leggere clicca qui), non è certo quello di indicare né finanziare siti ma solo quello di dettare standard e poi chi ha più filo tessa.
Tralasciamo le tentate sinergie con altri stabilimenti buone solo a far perdere tempo, così come è stato.
Il problema vero è che tra la volontà più o meno manifesta di mantenere gli assetti produttivi esistenti e la mai venuta meno credenza nell’aiuto salvifico dello Stato non si è affrontato il problema vero e cioè quello di pensare ad un progetto di sistema nell’ambito del quale trovare le convenienze per gli investitori.
Facciamo un solo esempio di convenienze e di compatibilità.
Se qualche investitore volesse per caso costruire un forno elettrico competitivo bisognerebbe, tra l’altro, assicurare sia l’energia a basso costo sia le infrastrutture ma in questo caso occorrerebbe fare i conti con la riconversione delle centrali produttrici di energia elettrica esistenti dentro lo stabilimento, destinate a chiudere senza i gas di risulta dell’altoforno e della cockeria, e con la realizzazione di infrastrutture che avessero un nesso con lo stabilimento, non certo con una parte di porto che non si sa bene a cosa servirà dato che il suo scopo era quello di accogliere i fanghi di Bagnoli, poi diventato quello di smantellare un rifiuto pericoloso come la Costa Concordia senza porre tutte le premesse, al di là di un molo e di qualche piazzale, per portare avanti un lavoro complesso come quello.
Ci fermiamo qui dato che abbiamo già a suo tempo parlato delle difficoltà da superare per una reindustrializzazione che non sia solo declamata (per leggere clicca qui), ma vale la pena di sottolineare che, a proposito delle funzioni e delle responsabilità delle istituzioni, il pubblico, questo sì lo poteva fare, avrebbe dovuto promuovere il coordinamento e la pianificazione realistica, non improvvisata, per il risanamento e il riuso produttivo delle aree industriali da bonificare, ma in questo proprio il suo ruolo non l’ha esercitato.
La vicenda della siderurgia piombinese non è ancora chiusa e naturalmente ci auguriamo che si sia ancora in tempo per chiuderla senza troppe perdite. Non vorremmo che dando per scontata sempre la retorica del “non possiamo lasciar decidere al mercato” si sia costretti un giorno a implorare il mercato di non essere troppo severo per raccogliere ancora qualche briciola.
(Foto di Pino Bertelli)
Ottimo articolo, complementare a quello uscito sul Sole giovedi’
Il Mise non sia solo un ospedale da campo
STRATEGIE D i SISTEMA CERCANSI.
Il ministero dello Sviluppo Economico non deve essere una merchant bank. Non ne ha le risorse. Non ne ha le competenze. E, nemmeno, il profilo istituzionale. Il ministero dello Sviluppo economico, però, non può essere assimilato a un ospedale da campo. Una struttura buona per (provare a) curare i morti e i feriti di una crisi economica che viene da lontano. Una patologia che, nel secondo Paese più manifatturiero d’Europa, si chiama deindustrializzazione e ha la sua radice storica nella fine del paradigma della grande impresa, in quegli anni Novanta che — fra decadenza delle grandi famiglie e privatizzazioni della vecchia economia pubblica non sempre eseguite a regola d’arte — sembrano non passare mai. Ecco che cosa fa, da troppo tempo, il Mise. E non solo con questo Governo-Tavoli di crisi. Gestiti con generosità. Ma segnati- in maniera inevitabile — dalla logica dell’emergenza e dalla ossessione occupazionale. Come è successo con la Lucchini di Piombino. Dove la pressione della politica locale e dei sindacati, e in generale l’ansia conservativa tutta italiana del mantenimento dello status quo dimensionale delle imprese in via di, dismissione, hanno fatto sì che il ciclo integrale fosse — contro ogni evidenza empirica — ritenuto un bene non negoziabile. Così, cinque anni dopo, l’acciaieria ha un profilo patrimoniale e finanziario «esausto», nelle parole di chi la gestisce. Questa ostinazione sulla conservazione per la conservazione non riguarda soltanto Piombino. Vale anche per mille altre crisi industriali. Dal Sulcis Iglesiente in avanti. Ma, così, la “politica industriale” si riduce a una sala di rianimazione. (Paolo Bricco)
Caro Paolo,
leggo sempre con piacere i tuoi scritti poichè ti ho sempre riconosciuto — pur pensandola diversamente — serietà e onestà intelletuale. Tuttavia stavolta sono fortemente perplesso: dipinge un quadro a tinte fosche sulle prospettive future non solo delle acciaierie piombinesi, ma si dimentica(?) di dire come ed a causa di chi siamo arrivati a questo punto. Non si può dimenticare infatti la folle frenesia privatizzatoria che afflisse negli anni ’90 (ma non solo) quella sinistra decomunistizzata che voleva accreditarsi presso lorsignori come bravi gestori del loro (di lorsignori) potere. Quindi si è venduto — meglio dire svenduto o regalato — quelle che erano le ricchezze economiche e strategiche del nostro sistema industriale ed economico (ci si ricorda ad esempio il D’Alema della Telecom e dei “capitani coraggiosi”?). Che le Acciaierie di Piombino siano state regalate — e ripeto” regalate” — a Lucchini con l’aggiunta di un lauto premio è cosa nota. I mantra di allora erano all’incirca e . Ora sono sotto gli occhi di tutti i disastri del privato (con rare eccezioni), in termini di incapacità di ricerca e innovazione, ed il cui scopo prevalente è riassimibile con il motto . Intanto nei paesi europei (solo per citarne alcuni e non minori: Francia, Austria, Germania) dove al governo non c’era chi doveva farsi perdonare un tristo passato comunista si continuava — e si continua — a mantenere industrie e aziende strategiche in mano allo Stato. Ora, così come se si trova per strada un bambino che piange con in mano un giocattolo rotto si interroga su chi sia stato e quindi se è stato lui a romperlo lo si rimprovera e magari gli si dà uno scappellotto, ma se è stato un giovinastro facciamo di tutto per costringerlo a ricomprarlo e magari gli diamo anche un sonoro e meritato ceffone, così credo che, nell’interesse di tutti, dobbiamo chedere alla Stato (anche se mi piacerebbe chiederlo direttamente all’esimio giudice costituzionale Amato impegnando le sue multiple e laute prebende) di recuperare al patrimonio pubblico quanto è indispensabile perchè l’Italia non sia solo il paese che produce cenci (firmati, ma sempre cenci) e veline. Non si tratterebbe di un “…intervento salvifico dello Stato…” ma di una doverosa presa di coscienza degli sbagli commessi.
Aggiungo infine, e concludo, che proprio per l’onestà intellettuale che ti riconosco, mi sarei aspettato un minimo di autocritica, visto e considerato che hai per decenni militato — e certo non da semplice iscritto — in un partito che malgrado le continue peripezie nominalistiche (PDS, DS, Ulivo, PD) porta pesanti responsabilità in tutto questo.
Con immutata stima e amicizia
L. Giannoni
Caro Luciano,
ti ringrazio delle osservazioni che hai voluto inviare. Il confronto è sempre utile. Nel merito è perfino superfluo che manifesti la non concordanza: il mio articolo ed il tuo commento sono molto chiari e dunque i lettori hanno gli strumenti per farsi una propria opinione. Esplicito solo una mia convinzione e uso le stesse parole che, riflettendo sull’Italia, hanno espresso in un libro recente, non a caso intitolato GRANDI ILLUSIONI, Giuliano Amato e Andrea Graziosi: “.. .Molti dei nostri problemi sono nati anche da questo rifiuto di prendere atto di una realtà sgradevole … e dai tentativi di varia ispirazione di esorcizzarla…”. Ecco, il senso del mio articolo era proprio quello di invitare a non coltivare illusioni con il rifiuto della presa d’atto della realtà.
In questo senso accolgo il tuo invito all’autocritica (per quanto il termine porti a drammi di sapore shakespeariano anche questi da non esorcizzare), ammesso che talvolta abbia assecondato il “rifiuto di prendere atto di una realtà sgradevole”.
Con analoga stima ed amicizia.
Paolo Benesperi