La fotografia randagia di un flâneur, Miroslav Tichý
PIOMBINO 6 giugno 2016
ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE
NELLA FOTOGRAFIA RANDAGIA DI UN FLÂNEUR
“Il tempo di una mia passeggiata determina quello che voglio fotografare…
Io sono un profeta della decadenza e un pioniere del caos,
perché solo dal caos è possibile che emerga qualcosa di nuovo…
Il tuo pensiero è troppo astratto! la fotografia è qualcosa di concreto.
La fotografia è percezione, sono gli occhi che intravedi, e succede così velocemente che potresti non vedere
proprio nulla! Per raggiungere questo, ti serve innanzitutto una pessima macchina fotografica!…
Prima di tutto è necessario avere una macchina fotografica scadente…
Se vuoi essere famoso, è necessario fare qualcosa peggio di chiunque altro al mondo…
Tutti i disegni sono già stati disegnati, tutti i dipinti sono già stati dipinti, cos’era rimasto per me?”
Miroslav Tichý
I. SULLA FOTOGRAFIA RANDAGIA DI UN FLÂNEUR
Bisogna amarla molto la fotografia, per volerla distruggere… la coscienza della fotografia dominante è coscienza del mito che ne consegue… la creatività liberata dai cenacoli dello spettacolo è per essenza rivoluzionaria. “La funzione dello spettacolo ideologico, artistico, culturale, consiste nel trasformare i lupi della spontaneità in pastori del sapere e della bellezza” (Raoul Vaneigem) (1) condannati a morte. Di fotografi del consenso sono lastricati gli annali e le antologie della fotografia insegnata, galleristica o museale… la storia li conserva così perfettamente nella gelateria della loro durata che si dimentica di leggere o intendere, meglio ancora, di comprendere la messe di banalità sulle quali ogni fotografo (non importa che sia di successo, anche un fotoamatore con la spocchia imprenditoriale fa lo stesso) ha diritto a un posto nel confortorio dell’imbecillità. Ogni apocalisse fotografica è bella di una bellezza uccisa o del suo contrario! Ogni storia va rifatta al rovescio… i ribelli non hanno bisogno di conoscersi per pensare la stessa cosa! la liquidazione della civiltà parassitaria (finanziaria, ideologica, religiosa, sapienziale) non merita essere in alcun modo difesa ma va aiutata
a cadere. La fotografia, tutta la fotografia, o attende alla libertà dell’uomo o è il boia che lo impicca.
Sulla fotografia dell’imperfezione. Le immagini dell’imperfezione esprimono una fare-fotografia che smaschera le ipocrisie della fotografia come apologia del bello e toglie i veli all’avvenimento, alla maschera, al ruolo… risveglia l’estraniamento brechtiano della presenza che lo obbliga a prendere decisioni e comunicare conoscenze e argomentazioni… la fotografia dell’imperfezione è l’immagine rovesciata della realtà prostituita alle codificazioni del mercato dell’arte e della politica. “La pretesa di fare arte è sempre stata la prerogativa dei mercanti di fotografie” (Gisèle Freund). Ora tocca ai fotografi dell’imperfezione a fare della fotografia millantata la cloaca di tutte le stupidità fantasmate come successo artistico. La fotografia non pensa quello che sa, può pensare soltanto quello che ignora. L’ignoranza del sapere è immensa! Il divenire degli spiriti liberi è nella fotografia dell’indignazione! Sotto il sole della fotografia paludata trionfa una primavera di carogne.
Da qualche parte abbiamo scritto: “La Bellezza non può entrare nell’arte se lo spirito dell’individuo non è ancorato alla sua opera e non riflette la decostruzione del sacro. La Bellezza ha a che fare con la nuda anarchia dell’immaginazione… la via alla bellezza comincia nell’incontro d’amore tra le genti… camminare insieme alla Bellezza significa opporsi a tutto quanto si mostra come negazione del piacere o rituale del puritanesimo mercantile delle idee”. La bellezza dell’imperfezione (in fotografia e dappertutto) si schiude alla veridicità del suo dolore e fa della fierezza il luogo di pubblico passaggio, come possiamo vedere e restare abbagliati nella poetica libertaria e libertina delle fotografie di Miroslav Tichý. La fotografia dell’imperfezione sboccia nel mondo con il bene dei giusti e combatte — con tutti i mezzi necessari — l’origine del male.
Un’annotazione fuori margine. Miroslav Tichý è un clochard, un vagabondo, un barbone ritenuto da molti folle, disadattato, un pezzente ed invece era un poeta della fotografia di strada, diretta (non quella banalizzata nel pittorialismo manicheista di Alfred Stieglitz, s’intende). Tichý nasce a Kyjov nel 1926, in Moravia (al tempo Cecoslovacchia), si trasferisce a Praga nel 1945 per iscriversi all’accademia d’arte e sulle correnti delle avanguardie artistiche del tempo inizia a lavorare come pittore e disegnatore. Nel 1948 il Partito Comunista sale al potere… la Cecoslovacchia si dichiara “democrazia popolare” e diventa parte dell’impero sovietico… e secondo i principi marxisti-leninisti-stalinisti consolidati, chi non sta dalla parte del potere comunista viene bastonato, buttato in galera o eliminato. I proletari vengono catechizzati dal regime e gli artisti devono celebrare l’Uomo Sovietico e imbalsamare nel mito Stalin i suoi genocidi. All’accademia d’arte di Praga i professori non allineati sono cacciati, gli studenti dissidenti fatti sparire nelle segrete della polizia politica o gettati nel fiume Moldava… hai più fortunati tocca il manicomio… come è successo a Miroslav Tichý.
Negli anni ’60 Tichý faceva parte del collettivo artistico Brněnská Pětka (Brno Five), ostile all’impalcatura criminale comunista, viene arrestato, rinchiuso in carcere e in cliniche psichiatriche… intanto scoppia la Primavera di Praga (1968) e l’armata rossa reprime la contestazione popolare con i carri armati (come aveva fatto a Budapest nel 1956)… il Partito comunista italiano, naturalmente, sta dalla parte degli assassini. La seduzione del potere ci rabbrividisce… come la santità e l’eroismo sono altrettante forme di mancanza di talento. I malati di speranza si richiamano ad un “umanismo” d’accatto e alle promesse di felicità che la negano.
La salute menatale di Tichý è fragile, per contestare la società nella quale vive sceglie l’autoesilio, torna a vivere a Kyjov… da clochard… in una casetta/baracca fatiscente. Non possiede nulla (né lo vuole), solo la sua fantasia e la libertà degli ultimi… si chiama fuori dal giogo sociale… così reinventa il “grado zero della fotografia”. Costruisce fotocamere con compensato, cartone, pezzi di plastica, lenti prese da macchine fotografiche giocattolo, lattine di birra, plexiglas (lavorato con cenere, dentifricio, carta vetrata) e porta la fotografia dell’imperfezione nella strada o viceversa. La fotografia sarebbe intollerabile senza i poeti maledetti che la bruciano. A un certo grado di disobbedienza civile, ogni franchezza diventa indecente. Nei documentari che circolano in YouTube (Tarzan v důchodě (Miroslav Tichý) — celý dokument (2008) di Roman Buxbaum o Ballad Of A Deadman / Miroslav Tichy di David Sylvian) si resta abbacinati dalla lucida follia/anomalia di questo artista… lo sguardo incisivo, la risata sdentata, i capelli sporchi, lunghi, da Cristo laico delle discariche… lo incidono fuori dalla menzogna ammaestrata del successo e non c’è nessuna identificazione d’accesso a un qualsiasi altare o comportamento che lo decifri oltre la vita disadattata che ha scelto… la frontiera tra follia e autoisolamento sta nel meglio perdersi nell’ottimismo moderno per meglio ritrovarsi nella radicalità della propria presenza nel mondo.
Il teatro creativo di Tichý sono la stazione degli autobus, la piazza principale, i giardini pubblici… strade, parchi, rive dei fiumi… ruba ciò che può alla quotidianità di Kyjov. La visione è diretta, quella del voyeur, del libertino, dell’anarca che non vuole l’amore di Cristo né l’odio degli uomini, ma solo la giustizia necessaria che non passa dalla carità del perdono ma dalla forza del riscatto creativo. In modo particolare “scruta” le donne… le “denuda” senza oltraggiarle e costruisce un florilegio di bellezza dell’umano che ha pochi precedenti nella storiografia fotografica. Il libro di Gianfranco Sanguinetti, Miroslav Tichý: Les Formes du Vrai / Forms of Truth (2011) non è solo un tributo dovuto a un fotografo di genio… lo scritto di Sanguinetti che accompagna le immagini di Tichy schiude lo scenario ereticale di un fabbricatore d’immagini che sta al
margine della fotografia, poiché ne rivendica la fine. Per avere un posto di rilievo nella fotografia, bisogna essere commedianti, rispettare il merletto delle idee e farsi portatori di falsi problemi. L’improntitudine di una sovversione senza rimpianti è l’ultima parola di una civiltà che si spegne.
Il collezionista svizzero Roman Buxbaum, scopre la fotografia della spazzatura di Tichý negli anni ’90 e il fotografo-barbone viene incluso nella biennale di Siviglia del 2004, curata da Harald Szeemann, critico e storico dell’arte. Da quel momento, come dicono, Tichy — acquisì fama a livello mondiale e le sue opere furono esposte a Madrid, Palma di Maiorca, Parigi e presso la prestigiosa galleria ICP di New York —. Va detto: come sappiamo il mercato recupera tutto, anche gli avanzi di galera, se vendono… e forse anche l’erotismo imperfetto di Tichý finirà sulle pareti dei salotti buoni o negli scaffali dei centri commerciali… tuttavia non sarà facile dissertare sulla sua arte nell’ora del tè. Tutto ciò che
non accetta l’esistenza in quanto tale confina con il disprezzo per l’ordine costituito. Tichý muore il 12 Aprile del 2011 a Kyjov. Lascia in eredità una cartografia fotografica che esprime la visione dell’imperfezione e l’immaginale dell’erotismo tra i più alti (certo il più fuori gioco) del ‘900. Scompare l’uomo ma resta la sua opera a testimoniare che la storia è una sfilata di falsità assolute, una successione di templi innalzati a pretesto del più armato, un avvilimento della conoscenza dinanzi ai simulacri del dominio dell’uomo sull’uomo.
II. ELOGIO DELL’IMPERFEZIONE SULLA FOTOGRAFIA DELLA SPAZZATURA
La fotografia che non è in difesa delle cause perse non serve a niente… per manifestarsi la fotografia esige la verità e spesso vi soccombe, ma non cessa di disseminare ai quattro venti della terra la sua vitalità e utopia libertaria… la condizione esistenziale della fotografia della flânerie o fotografia di strada, non è quella che si fa PER la strada ma che affabula un’utopia delle situazioni NELLA strada, smaschera i luoghi comuni e la stupidità sui quali si sostengono religioni, partiti, economie, culture… è un’invettiva contro l’impostura istituzionale che rende il vero che
uccide la vita una scenografia da operetta (avevamo scritto nel nostro moleskine, in una deriva fotografica a New York nel 2010)2. In generale, la fotografia è un avvilimento dell’anima… anche quando si allontana dalla stupidità, la fotografia rimane assoggettata agli inganni infantili o del mercimonio che la determinano. Il bisogno di consenso e di successo dei fotografi trionfa sulla mediocrità e sul ridicolo. La capacità di adorazione della fotografia verso i responsabili di tutti crimini impuniti è sovente un’impostura o un tradimento: c’è sempre una definizione dell’arte della fotografia all’origine di un tempio della confessione, dell’assoluzione o dell’impiccagione… e non c’è (2) forma d’intransigenza
ideologica, sacrale o mercantile che non riveli l’imbecillità dell’entusiasmo.
La scrittura fotografica di Miroslav Tichý è quella di un flâneur, di un filosofo del margine, di un libertino che cerca nella strada l’imago (rappresentazione o immagine inconscia) di momenti svelati e si legge in contrapposizione alle norme sociali… è il diario di un’ossessione erotica, anche… la constatazione che l’immaginario dal vero non nasce da una macchina fotografica (quale che sia) ma dallo sguardo impertinente che sta dietro questa scatola magica. La scrittura fotografica di Tichý è un percorso di tentazioni e di vertigini dispersi nella climatizzazione dell’incompiuto… una sorta di archeologia dei sentimenti che traboccano di vita vera… c’è Niezsche, Baudelaire, Benjamin, financo Pasolini in quelle fotografie randagie, scorticate, disperate, anche… la fotografia muore quando tollera verità che la escludono.
Le derive fotografiche di Tichý sono seducenti… scatta ciò che lo imprigiona… l’erotismo rubato e la bellezza fugace di un corpo di donna si configura nell’inquadratura sbilenca, nel rapporto emozionale, nel modo di maneggiare la fotocamera (come già detto, uno strumento fatto con plastica, cartone, colla, nastro isolante e lenti trovate nei cassoni dell’immondizia) e renderla invisibile o nemmeno credibile a quanti si fanno complici di questo sudicio barbone e si mettono in posa per il ritratto. Al fondo delle immagini di Tichý c’è una “ruvidità figurativa” non priva di rimandi alla decostruzione dell’arte propri al dada, surrealismo, lettrismo o più ancora alla costruzione delle situazioni dell’Internazionale Situazionista (3). Ciò che cambia il modo di vedere la vita è molto più importante di ciò che cambia la nostra maniera di vedere la pittura, il cinema, la fotografia, le parole, dicevano i situazionisti… lo spostamento senza scopo del flâneur si fonda sul gioco d’incontri dove niente è preso sul serio è tutto diventa una proclamazione di bellezza e un invito a respingere dappertutto l’infelicità.
Non c’è impudicizia nei nudi slabbrati di Tichý… più o meno rubati all’istante… ai bordi di un fiume, al limitare di un bosco o nelle gambe (appena scoperte) che spingono una bicicletta… in massima parte sono le donne che attirano la sua attenzione… le inquadra di spalle, mentre si aggiustano i capelli, camminano in allegrezza per strada… o cerca la complicità frontale di ragazzine che lasciano la loro freschezza nella fotocamera di latta del fotografo di Kyjov.
Il ritratto di una ragazzina incollato su un pezzo di cartone (sbiadito) è un autentico capolavoro… la ragazzina guarda in macchina in maniera decisa, sfrontata, ripresa quasi di taglio… l’immagine è mossa, sfocata, tuttavia contiene una bellezza eversiva di non poco contro… la poetica dell’imperfezione di Tichý qui tocca le forme più alte dell’incompiuto… il fotografo interviene sul viso della ragazzina, tratteggia con una biro gli occhi, i capelli, il maglioncino nero… la bellezza della sua malinconia è pari al suo destino di disingannato. La leggenda dice che Tichý vagabondava per le strade di Kyjov in cerca dei cento scatti da fare ogni giorno, e ne fa migliaia, specie tra il 1960 e il 1985… le fotografie sono spesso mosse, sfocate, male esposte, sviluppate in cattività (una vascaccia da bagno, una bacinella ammaccata, un vaso da notte),
macchiate, graffiate… si vedono anche le impronte delle sue dita… tuttavia queste imperfezioni fuoriescono da una visione poetica della realtà che le rende estremamente singolari se non uniche. A vedere con cura certe immagini di giovani donne in costume che prendono il sole sull’erba, riprese di spalle più che anonime o il nudo di donna con le giarrettiere… immerso nel buio e aperto alla storia del peccato rivendicato alla maniera di Bellocq… si resta stupiti di tanta nobilità architetturale e presa d’eternità del momento vissuto. È la bellezza dell’imperfezione che crea la poesia e come sappiamo dagli antichi greci, la bellezza contiene anche la giustizia.
C’è un’immagine che rimanda direttamente al nudo di Hedy Lamarr (Hedwig Eva Maria Kiesler) nel film Estasi (1933) di Gustav Machatý (girato a Vienna e a Praga)… è la prima scena di nudo integrale nel cinema… ma a Tichý basta una donna in costume bagnata dall’acqua del fiume per ricordare non solo la bellezza ignuda di Hedy Lamarr ma più ancora un’etica atea, una morale senza Dio né Stato che decidono cos’è il bene e cosa il male. Ad ogni atto generato dal desiderio, succede l’incantamento di una rivelazione improvvisa e ciò che conta è l’estasi del visionario, non i suoi ragionamenti.
Le belle fotografie, come si dice, possono avere come cornice solo il vero che nasce dall’aristocrazia del dolore che contrasta i deliri collettivi e come scaturigine solo la libertà come atto di trasformazione del reale tradito… la fotografia dell’incompiuto è una critica della separazione, della negazione dei ruoli, di ogni tipo di specializzazione come detrito o forma compiuta dell’alienazione totale del capitalismo parassitario. Contro il benessere quantitativo dello spettacolo diffuso (l’avanzare delle tecnologie in mano ai saprofiti della comunicazione) e dello spettacolo concentrato (la dittatura del mercato attraverso le manipolazioni dei partiti e dei governi)… ricordiamolo, se ce ne fosse ancora bisogno: “Lo spettacolo è il discorso ininterrotto che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo è l’autoritratto del potere all’epoca della
gestione totalitaria delle condizioni di esistenza… lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra individui, mediato dalle immagini… Lo spettacolo è il capitale giunto a un tal grado di accumulazione da divenire immagine” (Guy Debord) (4). Lo spettacolo non canta solo gli uomini e le loro armi, ma le merci e le loro pedagogie consumeriste. Là dove impera lo spettacolo, non c’è spazio che nella soggezione generalizzata.
La poetica dell’imperfezione di Tichý esprime una gioia libertaria o una filosofia della felicità nella passione di vivere e nell’incuranza della ragione imposta… il suo stile di vita è anche quello del suo fare-fotografia… una consunzione di corpi e di sogni a nutrimento di un’anima che ama e non chiede di essere riamata… un encomio a vivere che è l’autobiografia dei fatti, voluttà della carne, geografia dei sentimenti struccati… la sua opera è intrisa nel libertinaggio dei giusti sprovvisti d’ingiustizia e non coincide con un ideale di santità presentato come perfetto… non c’è nessuna colpa nel suo immaginale, semmai la grazia che la cancella. Il sentimento d’innocenza edidetica del suo portolano figurativo non è incline a buone intenzioni… l’arte del voyeur da calendari viene amputata come delitto e più ancora il dispendio della fattografia pulsionale
(i richiami alla fotografia più compiuta di Lewis Carroll sono dovuti) implica la decadenza della dossologia fotografica e tramite il diritto d’inventario del suo rizomario estetico/etico mostra una metafisica dei corpi in amore e un’innocenza dello stupore che ridicolizzano ogni forma di potere.
La fotografia desiderante di Tichý disperde spore d’anarchia nella libera epifania delle passioni e al meglio di un pensiero dionisiaco che non piega la schiena sotto il peso delle costrizioni sociali, rivendica il diritto all’intelligenza che rigetta la nostalgia del passato e l’angoscia del divenire. “La bellezza che non è promessa di felicità, dev’essere distrutta” (Internazionale Situazionista). Il ricatto dell’utilitarismo modella il tempo, lo spazio e la realtà che impedisce di sognare un mondo più giusto e più umano, e va sconfitto. Le situazioni per rovesciare l’esistente non si trovano nei libri, nei discorsi politici, nei mercati globali, nei sermoni delle religioni monoteiste ma girando in tondo di notte consumati dal fuoco della sovversione non sospetta… in derive prolungate di grandi giornate in cui niente somigliava al giorno prima e attraverso il rovesciamento di prospettiva di un mondo rovesciato fare della lezione, epicurea, nietzschiana, libertaria una critica profonda della secolarizzazione delle lacrime, costruire una festa di avvenimenti radicali contro la quotidianità dell’impossibile e fare della propria vita un’opera d’arte.
(1) Raoul Vaneigem, Trattato di saper vivere ad uso delle giovani generazioni, Vallecchi, 1974
(2) A ritroso. Con queste idee in testa, qualche hanno fa, ho preso una manciata di pellicole scadute (poi passate in uno scanner da tre soldi), una mappa di Berlino per girare New York (alla maniera dei situazionisti) e insieme a mia moglie e mia figlia siamo andati ad iniziare l’anno nuovo nella grande mela… naturalmente avevo in testa la mia maestra in TUTTO, Diane Arbus… e pensavo a lei, a lei soltanto mentre fotografavo nel Central Park… ero commosso di essere lì… sentivo i suoi passi, il suo fiato, l’odore di mughetto che veniva dai suoi abiti sgualciti… l’ho vista sulla faccia di un barbone dalla bellezza fulminante… e mi ha detto: “La fotografia non sta nel distruggere i miti, gli idoli, gli oracoli… sta nel non crearne mai”. Poi ho ricordato che si era uccisa nel 1972, forse per coraggio, forse per poesia, forse perché vivere in un mondo disabituato all’amore, alla fraternità, alla condivisione… è difficile quanto trovare un uomo onesto in parlamento… nulla è più sospetto dei partiti, delle religioni, dell’alta finanza… sono i nuovi feudatari e governano l’universo col ferro e col fuoco. Amen! e così è.
(3) Internazionale situazionista 1958–69, Nautilus, 1994
(4) Guy Debord, La società dello spettacolo, Vallecchi, 1979
Piombino, dal vicolo dei gatti in amore, 3 volte giugno, 2016
Adoro Ticky, mi auguro di sbagliare Sempre!