Le istituzioni tacendo non fanno il loro mestiere
PIOMBINO 15 aprile 2018 — Se, in contraddizione con la teoria della relatività di Einstein, si potesse superare la velocità della luce, la frequenza con la quale emergono continui annunci sui progetti della Jsw di Sajjan Jindal su Piombino lo farebbe sicuramente.
E con la stessa frequenza con la quale sono recitati cambiano anche i contenuti: altoforno rimesso in funzione, altoforno costruito ex novo, due forni elettrici, tre treni di laminazione restaurati ed uno nuovo, prodotti lunghi ma anche prodotti piani e chi più ne ha più ne metta.
Ma attenzione, si potrebbe anche sprofondare in un buco nero e non più uscirne.
Recentissimamente, ad esempio, Il Sole 24 Ore ha sollevato un’ipotesi connessa alla vendita della Magona di Piombino proposta dalla proprietaria ArcelorMittal all’antitrust europea. Esaminando le diverse possibilità di vendita dei diversi impianti posseduti da ArcelorMittal in Europa, Il Sole 24 Ore di sabato 14 aprile scriveva:«Una delle ipotesi potrebbe essere la suddivisione del pacchetto in tre tronconi, con Galati accoppiato a Magona (storicamente il sito riforniva di coils Piombino)…addetti ai lavori sposano…l’ipotesi di un interesse di Jsw, che potrebbe mollare la presa sulla ex Lucchini, tentato dall’integrazione tra l’afo rumeno e dalla verticalizzazione toscana».
Situato nel sud-est della Romania, ArcelorMittal Galati, lo chiariamo per i nostri venticinque lettori, impiega circa 5.600 persone ed è il più grande impianto siderurgico a ciclo integrale del Paese, con una capacità produttiva di 3 milioni di tonnellate di acciaio.
Lo abbiamo ricordato non tanto per addentrarci nell’ennesima discussione sulle intenzioni di Jindal per il futuro prossimo e remoto dello stabilimento di Piombino, quanto per un dovere di informazione e per aggiungere un mattone alla tesi secondo la quale sarebbe meglio che le istituzioni pubbliche, invece di aspettare di sapere cosa vuole fare Jindal, chiarissero prima esattamente cosa vogliono fare loro.
Sembra invece di capire che tutto possa racchiudersi in tre generici passaggi: riprendere la lavorazione dei tre laminati esistenti, demolire i vecchi impianti non più utilizzati, riprendere, non si sa bene come, la produzione dell’acciaio. E tutto si ferma qui. Salvo riaffermare poi le destinazioni della variante Aferpi come se niente fosse cambiato o come se fosse un abito buono per tutte le stagioni.
Un po’ poco, francamente, dopo il fallimento di un progetto su cui istituzioni locali, regionali e nazionali, unitamente alle organizzazioni sindacali, avevano speso tutto, salvo ritrovarsi con un pugno di mosche in mano.
Scartiamo pure per comodità l’ipotesi che la trattativa con Jindal fallisca e che riemerga Rebrab.
Non sappiamo quale progetto Jindal proporrà ma, ammesso anche che presenti un piano industriale siderurgico con i piedi per terra, qualche ragionamento si può e si deve fare.
Finora nessuno ha parlato, e dunque non sembra ipotizzabile, un suo impegno negli altri due settore proposti, si fa per dire, dall’algerino e cioè il porto e l’agroindustriale. Poiché questi erano compresi, almeno come indicazioni, non solo nel contratto di acquisto della Lucchini ma anche nel parallelo accordo di programma per il risanamento ambientale e la reindustrializzazione, simili questioni non possono rimanere appese per aria e dunque le istituzioni pubbliche, almeno su questo, non possono non chiarire cosa vogliono fare.
Quelle decine di ettari di demanio marittimo con relative banchine tutte da realizzare opzionate da Rebrab per volontà pubblica ritornano all’Autorità portuale? Ed in questo caso con quali criteri e metodi e per quali destinazioni si intende renderle operative sapendo che occorrono centinaia di milioni di euro. Si aspetterà la prima azienda che si presenterà o le istituzioni pubbliche sceglieranno le destinazioni più convenienti per il territorio e per la loro realizzazione suscitando il confronto perché di offerte ce ne siano più di una ed avere così la possibilità di scegliere la più conveniente per il territorio?
E là dove avrebbe dovuto insediarsi la produzione agroalimentare e più in generale per tutte le aree più vicine alla città, ritengono sufficiente implorare le demolizioni degli impianti, oltretutto dando ad intendere che così lavoreranno i dipendenti delle ditte dell’indotto di Piombino quando invece ben altre dovranno essere le eventuali professionalità per simili rilevantissime opere con i connessi problemi di bonifica e smaltimento di pezzi di impianti da studiare ben bene?
E poi demolire tutto e subito per cosa? E se invece potessero esserci soluzioni alternative per il riuso almeno parziale di una parte di impianti? Si può con una formuletta affrontare un problema di questo tipo, decisivo sia dal punto di vista economico che urbanistico, o invece è d’uopo per le istituzioni pubbliche lavorare ad una progettazione basata su studi e riflessioni di alto livello così come l’importanza del tema, il riuso di aree industriali dismesse, impone?
Non citiamo, per non ripeterci, tutti gli altri temi, dalle bonifiche alle infrastrutture ai rifiuti alla stessa delimitazione territoriale, che non trovarono soluzione nell’accordo di programma del 30 giugno 2014. Sottolineiamo solo che sarebbe irresponsabile dimenticarsene.
In altre parole siamo di fronte al problema del ruolo che vogliono assumere le istituzioni, soprattutto quella locale, nei confronti delle proposte che verranno da un privato ed anche da altre istituzioni locali. Nel passato ha predominato un ruolo passivo di accettazione di ciò che veniva da altri luoghi. I risultati si sono visti.
Oggi, anche in virtù anche delle esperienze passate, si impone un cambiamento.
Non vorremmo che mancasse la volontà.