Ormai né cittadella dell’acciaio né roccaforte rossa
PIOMBINO 13 giugno 2019 — La nuvola rossa che ammorbava il cielo di Piombino a ogni colata del suo acciaio non c’è più. Fumi rossi, bianchi e neri sotto i quali si nascondeva quel pane che ha sfamato una gran parte della Toscana meridionale hanno lasciato il posto a un cielo limpido, appena disturbato dalla foschia portata dallo scirocco che batte la sua splendida costa fatta di arenili e picchi mozzafiato sul mare.
Il quartiere Cotone, nato insieme e per la fabbrica, dove una volta le donne stendevano le lenzuola bianche ritrovandole la sera macchiate dallo ‘spolverino’, se non fosse per il disordine e la povertà della sua edilizia, al confronto con quel che appariva solo un decennio fa, appare come un qualsiasi quartiere residenziale di periferia. Il gigantesco altoforno si è fermato alle 10,56 del 24 aprile 2014 e con esso è scomparso quel pestifero odore della cokeria che faceva dire ad uno dei personaggi di Paolo Virzì, in una delle prime sue opere cinematografiche interamente girata a Piombino, ‘La bella vita’: “Non vedo l’ora di morì per un senti più quel puzzo”.
Piombino non è più la cittadella dell’acciaio e, dal 9 giugno, non è neppure più la roccaforte rossa che già all’inizio del secolo scorso aveva espresso i suoi primi sindaci socialisti. Non lo è più perché conquistata da un sindaco di Fratelli d’Italia che ha saputo sfruttare la voglia di un cambiamento che da tempo era nell’aria e che lo ha trascinato a una vittoria clamorosa battendo col il 64,26% di consensi il candidato del centrosinistra. È stato quasi un doppiaggio: 10.411 voti contro 5.790. “Cambiare marcia”, uno slogan semplice che ha rapidamente conquistato i piombinesi, stanchi di veder dipendere il proprio benessere dall’altalenante destino dell’acciaio, stanchi di doverlo difendere scendendo periodicamente nelle piazze, stanchi di immolare centinaio di ettari del proprio territorio sull’altare di una fabbrica che non è più in grado di sfamare i suoi figli.
Oltre 150 anni di acciaio hanno procurato ferite profonde alla città nata sul mare. Un milione di metri quadrati occupati dal centro siderurgico che negli anni Sessanta avrebbe dovuto diventare il più grande d’Italia, lasciando poi, per scelta politica dei governi Dc, il posto a Taranto. Un territorio occupato per nulla, mentre la fabbrica continuava a incunearsi nella città arrivando con i suoi impianti a divorare addirittura parti del centro abitato: il Vicolo Stretto, parte di via Pisacane, la strada provinciale che una volta collegava il Cotone al centro urbano, via Portovecchio. Un sacrificio accettato perché da quello sviluppo industriale dipendeva il benessere, perché consentiva alla città di crescere, di richiamare gente dai paesi vicini, di veder nascere nuovi palazzi, aprire negozi e persino di permettersi il lusso di lasciare incontaminate parti del suo territorio di straordinaria bellezza come il Golfo di Baratti e il suo Promontorio fino al gioiello della sua porta di Calamoresca, rimasto il limite dell’ultima espansione edilizia degli anni Ottanta salvandolo dai tentativi di una devastante speculazione edilizia prospettata dalla ‘Populonia Italica’ dell’allora re del cemento Carlo Pesenti.
C’è sempre una causa scatenante nelle malattie nascoste. Quella che ha determinato la caduta della ‘Cittadella rossa’ è stato il puzzo di una discarica. Per decenni i piombinesi che trascorrevano qualche giorno di vacanza lontano dalla loro città, all’ingresso del Gagno, avvertendo il nauseabondo odore del gas di cokeria, riconoscevano di essere tornati a casa, lo avvertivano quasi come un odore rassicurante e, guardando quelle luci abbaglianti della fabbrica, si sentivano orgogliosi di vivere in una delle città industriali più importanti d’Italia, quella che produceva le rotaie su cui correvano i treni di mezzo mondo.
Erano fumi e odori ben più nocivi, ma davano lavoro, progresso. Piombino si sentiva più vicina a Sesto San Giovanni, a Torino al quale forniva acciaio per le sue auto, al Nord produttivo piuttosto che all’ultimo lembo della Toscana meridionale ancora prevalentemente agricola.
Quella fabbrica da un decennio in punto di morte, sulla quale sono stati sperimentati antidoti e cure palliative, ha abbandonato centinaia di ettari di terreni contaminati, discariche abusive e immani bonifiche da fare per curare le ferite. No, il muro della ex cittadella rossa non è caduto per il puzzo di una discarica. Si è sbriciolato in questi ultimi dieci anni, poco a poco, insieme alla tenuta della colla sociale che per decenni lo aveva tenuto insieme classe operaia, piccola borghesia, commercianti e piccoli imprenditori legati da un interesse comune.
Il puzzo di quella discarica può essere eliminato. RIMateria, sulla quale si è concentrata la campagna elettorale della variopinta formazione che governerà Piombino per i prossimi cinque anni, potrà addirittura essere uno degli strumenti delle ambite bonifiche. Quello che non tornerà è il passato. Oggi le acciaierie sono di proprietà del Gruppo indiano Jsw Steel. Si è ripreso a lavorare acciaio che però non è più prodotto qui. Si prospetta un percorso lungo per riconvertire la fabbrica verso un modo di produrre meno impattante, più rispettoso dell’ambiente e della salute dei cittadini. Le lacerazioni, quelle sociali, culturali e politiche potranno essere sanate solo quando a Piombino tornerà il lavoro, quando i suoi giovani non saranno più costretti ad emigrare, quando sarà in grado di ricostruire una rete di servizi adeguati, a cominciare dalla scuola dalla sanità pubblica, perché di nuovo città importante.
(Foto di Pino Bertelli)
Condivido in pieno l’articolo, il crollo della sinistra piombinese non è sulla discarica, con la chiusura dell’acciaierie è avvenuto il corto circuito con la società piombinese che da tempo si stava preparando e di cui il PD è stato il principale attore e colpevole. Era facile fare politica ai tempi dell’ IRI: la politica, commercianti, imprenditori, artigiani, cittadini tutti attaccati alle mammelle della “grande madre” acciaieria. Dal ’92, con l’avvento della privatizzazione Lucchini, le cose cominciano a cambiare ma nessuno se ne accorge, nessuno avverte il “pericolo” che da lì in avanti l’acciaieria sarebbe dovuta sottostare alle dure leggi del libero mercato e della globalizzazione. La “reindustrializzazione ” e “diversificazione economica” sono ipotesi snobbate dalla politica locale, parole buone per riempire le bocche in campagna elettorale, niente di più. Tanto lo stabilimento è sempre lì e fare politica e salire agli onori della cronaca locale è ancora relativamente facile. Ma qualche segnale di incapacità di programmazione territoriale che portasse ad immaginare una Piombino oltre la fabbrica c’era già, le varie ipotesi che si sono susseguite di investimenti produttivi terminavano in un nulla di fatto oppure, peggio ancora, permettevano l’arrivo di avventurieri come la storia dei “telefonini”. Quante ne abbiamo viste, quanto tempo perso, quanta energia sprecata e quante occasioni perse, quante illusioni, ma su tutto comunque resisteva ancora la fabbrica e con essa la certezza della garanzia di poter continuare così come sempre. A Piombino non c’è stata una crescita politica, una consapevolezza, una presa di coscienza, di quello che poi sarebbe avvenuto, si continuava a fantasticare su varie ipotesi di sviluppo e di lavoro senza mai approfondirne le vere possibilità, si sparavano “giornalate”: porti turistici, ce ne dovevano essere almeno 4, forse ne verrà 1, la vicenda Concordia, i fanghi di Bagnoli, il nuovo ospedale a Riotorto, di cui era già stato individuato il sito, secondo alcuni; riconversione della centrale Enel, strade ed autostrade ecc.ecc. Niente di alternativo nel frattempo alla fabbrica è stato realizzato, niente che potesse attutire il colpo che poi, con lo spegnimento del AFO, è arrivato. Diciamolo una buona volta: la stragrande maggioranza dei piombinesi non pensava che potesse accadere, il perché è semplice: sono ancora troppi i piombinesi figli dell’IRI. Ora il giocattolo si è rotto e i piombinesi hanno fatto la loro scelta, ma da qui a riportare Piombino ad essere importante sarà molto dura, molti giovani piombinesi dovranno ancora emigrare e molti anni dovranno passare. Reinventare una città, riportare i 4000 posti lavoro persi è e sarà un impresa titanica ma su tutto c’è una certezza: non potrà più essere la Piombino che conosciamo.
Ottimo post Vincenzo, condivido tutto quello che hai scritto! Soprattutto la parte finale: reinventare dopo una malattia durata 70 anni chiamata Pci-Pds-Pd sarà dura, ma è l’unica via.
Certo che se la reinvenzione è affidata a quelli dell’attuale governo nazionale, coi loro brillanti risultati, siamo sicuramente a posto.…
Sicuramente non peggiori di quelli che ci sono stati precedentemente anche perché vorrei capire quali brillanti risultati ci sono stati con Monti, Letta, Renzi e Gentiloni.
Al di là del fatto che con gli ultimi tre governi il Paese non era in recessione, mentre adesso unico in Europa lo è, il lato peggiore è l’abisso di rozzezza e violenza, con conseguente totale degrado della convivenza civile, determinato dall’attuale (vice)primo ministro della Lega.
Credere ad una reinvenzione in questo quadro di orientamenti reazionari e isolazionisti è solo una pia illusione per i credenti nelle stelle.