Un parco di archeologia industriale nella Lucchini
PIOMBINO 1 settembre 2014 — Con la chiusura dell’altoforno e dell’acciaieria a Piombino è cessata la produzione di acciaio secondo il modello del ciclo integrale, un processo produttivo rigido che una volta avviato, salvo manutenzioni, non poteva più fermarsi. Ed invece si è fermato, causando la più grave crisi economica della Val di Cornia dal dopoguerra ad oggi.
È possibile pensare che quegli impianti ormai dismessi spariscano, magari perché venduti, e diventino solo l’oggetto di un qualche romanzo, per quanto pregevole, così come lo sono diventati quelli di Bagnoli protagonisti, insieme all’operaio dell’Ilva-Italsider Vincenzo Buonocore, de “La dismissione” di Ermanno Rea?
È possibile pensare che non possano passare inesorabilmente trent’anni per ritrovare ancora un problema insoluto costituito da enormi aree industriali non più utilizzate, né industrialmente né per altri usi, ma semplicemente abbandonate dopo essere diventate l’oggetto di infinite progettazioni, pressoché tutte miseramente fallite, come è già accaduto a Piombino con il programma di riqualificazione urbana di Città Futura?
È possibile che il termine reindustrializzazione ambientalmente compatibile non rimanga o non diventi l’ennesimo argomento per convegni e seminari, ma possa essere un processo realmente praticabile? E in questo caso, quale futuro per impianti enormi e terreni una volta produttivi ed oggi non più?
È possibile uscire dalla logica che prevede necessariamente vendite o demolizioni degli impianti, magari giustificate, solo teoricamente, dall’impiego degli operai che hanno perso il lavoro?
È possibile parlare della valorizzazione di queste realtà come parti complementari di un progetto complessivo di archeologia industriale (absit iniuria verbis) del resto già in parte realizzato per gli insediamenti industriali e minerari antichi e non solo in Val di Cornia, all’isola d’Elba e nelle Colline Metallifere, tutti connessi alla metallurgia?email hidden; JavaScript is required“>email hidden; JavaScript is required” alt=“lucchini-siderurgia-007-kdMI–258x258@IlSole24Ore-Web” width=“258” height=“258” />
Il centro siderurgico di Piombino è stato parte dello sviluppo della siderurgia europea a partire dalla ricostruzione postbellica, passando per la ristrutturazione degli ultimissimi anni ’70/primi anni ’80 condotta dal commissario europeo Étienne Davignon, per la crescita ed il declino delle partecipazioni statali e per la conseguente fase delle privatizzazioni. Piombino ha resistito con il suo ciclo integrale fino al 2014 quando i centri siderurgici italiani (Genova-Cornigliano, Piombino, Bagnoli e Taranto) da quattro sono passati a due ( nel 1989 chiuse l’area a caldo di Bagnoli e tra il 2002 e il 2005 la cokeria e l’altoforno dello stabilimento di Cornigliano a Genova), ma non ha colto le sfide della qualificazione dei suoi prodotti, della necessità di arrivare a indispensabili economie di scala, che non ha mai avuto, dell’obbligo di fare i conti con la negativa particolarità italiana del costo dell’energia o con la concorrenza del forno elettrico. Sarebbe stato possibile affrontare le deficienze strutturali dello stabilimento di Piombino, ma sarebbero stati necessari progetti e investimenti. Quando si è pensato di realizzarli era ormai troppo tardi. Le stesse diverse forme di assistenzialismo pubblico, non connesse a processi di ristrutturazione e qualificazione, hanno contribuito a prolungare una situazione che non poteva non condurre alla crisi economica e finanziaria, all’ insolvenza e, infine, al fallimento gestito nelle forme della procedura di amministrazione straordinaria non ancora conclusa. Anche in quest’ultima fase, aver confidato sulla possibilità di difendere integralmente un processo produttivo che accumulava perdite economiche e finanziarie ha solo bruciato risorse e tempo, tempo prezioso. Vedremo a cosa porterà l’unica offerta oggi presente, quella di JSW Steel Limited, ma in ogni caso il vero problema è quello di cominciare a ragionare nel modo in cui fino ad oggi non si è fatto, anzi si è volutamente evitato: partire dal presupposto che si pone contemporaneamente sia un problema di mantenimento (pur limitato ad una dimensione che per ora non è dato sapere) di un’attività industriale siderurgica, sia un problema di riuso di vaste aree inutilizzate e di grandi impianti dismessi che non potranno più avere la funzione per la quale furono costruiti. Si tratta di mutamenti radicali che, senza lasciarsi andare a semplificazioni e illusioni, impongono di aprire una fase coraggiosa di riprogettazione del futuro dell’area industriale di Piombino in un contesto territoriale ed economico molto diverso da quello conosciuto fino ad oggi. La crisi (non solo quella della Lucchini, basti pensare alla Magona e alla chiusura della centrale termoelettrica dell’ ENEL) ed i suoi sviluppi (alcuni dei quali ancora indecisi) basterebbero da soli a giustificare la revisione di piani strutturali, peraltro solo parzialmente coordinati tra i Comuni della Val di Cornia (San Vincenzo e Sassetta non hanno più aderito al coordinamento), concepiti prima della crisi del 2008, modificati con varianti sostanziali ancorché settoriali non discusse collegialmente (tra cui proprio quelle relative agli assetti industriali e portuali di Piombino) e, infine, attuati con regolamenti urbanistici comunali di durata quinquennale che ancora oggi confidano sulla crescita quantitativa delle costruzioni civili, commerciali e produttive con relativi consumi di suolo. Sarebbe stata necessaria una riflessione ed una progettazione a 360 gradi che rifuggisse da visioni settoriali, da improvvisazioni e da soluzioni contingenti senza prospettive credibili di sostenibilità e utilità sociale nel tempo. Abbiamo invece assistito a infiniti accordi ed intese istituzionali circoscritti al solo Comune di Piombino, spesso costruiti con approcci e procedure emergenziali giustificate dalla crisi industriale, ma in realtà connessi ad eventi esterni come il naufragio della Concordia. C’è da augurarsi che si trovi una utilizzazione per le grandi opere marittime in corso di realizzazione nel porto di Piombino, ma non è certo un buon viatico l’aver concepito una legge (24 giugno 2013, n. 71), i successivi accordi istituzionali e un investimento di oltre 130 milioni di euro (molti dei quali sottratti alle bonifiche) per rottamare a Piombino la “Concordia” naufragata al Giglio quando erano evidenti le incongruenze temporali e logistiche per raggiungere quell’obiettivo, tant’è che quella nave sarà smantellata a Genova. L’emergenza vera di Piombino è questa: colmare il vuoto progettuale generato dai troppi anni in cui ci si è affidati a soluzioni estemporanee e decontestualizzate e per questo prive di fondamento, dai fanghi di Bagnoli del 2007 alla rottamazione della Concordia del 2014, passando nel 2009 per le illusioni di una nuova acciaieria dentro la città (il minimill nelle aree non più utilizzate per fini industriali di Città Futura), fino alle ultime chimere del “sogno arabo” che contemplavano la continuità produttiva dell’altoforno fino a quando non fosse stato costruito un nuovo stabilimento a ciclo integrale a Ischia di Crociano per poi realizzare alberghi e porti turistici nelle aree industriali dismesse, dopo aver demolito altoforno, cokeria e acciaieria esistenti. Naturalmente il tutto avrebbe dovuto convivere con l’ipotesi di costruire nel mare antistante un “polo europeo per la rottamazione delle grandi navi”, oggi ridimensionato a porto in cui demolire alcune navi della marina militare italiana. Questi propositi, alla luce dei fatti, appaiono ora inimmaginabili, ma fino a pochi mesi fa, purtroppo, hanno costituito la base di un’ illusione collettiva (alla quale era difficile opporsi senza incorrere in linciaggi morali), per molti indotta dalla disperazione della perdita del lavoro e per altri da un deficit di capacità di governo o, peggio ancora, dall’uso politico della crisi per costruire effimeri consensi elettorali. Se una nuova pianificazione territoriale in Val di Cornia è dunque urgente, lo è ancora di più intervenire per correggere accordi istituzionali che, ancora in nome della crisi industriale, rischiano di aggravare la situazione. Molta attenzione, ad esempio, deve essere riposta al tema delle bonifiche (tanto declamate quanto non praticate anche in presenza di reali risorse finanziarie pubbliche), sia per garantire razionalità progettuale nei processi di risanamento ambientale, sia per raccordare le bonifiche a scenari sostenibili di riuso dei terreni. Serve un programma complessivo dove bonifiche e riuso delle aree industriali siano strettamente connessi e integrati nella visione che si ha del futuro di Piombino, della Val di Cornia e dell’area vasta che comprende almeno l’isola d’Elba e le Colline Metallifere. In questa visione dovranno naturalmente trovare un ruolo la continuità produttiva delle parti delle industrie siderurgiche in grado di stare sul mercato, la creazione di aree bonificate e urbanizzate per l’insediamento di nuove attività produttive e di servizio, lo sviluppo del porto commerciale e passeggeri. Non può sfuggire, però, come sembra stia accadendo, che in questi territori si concentrano anche le tracce di una straordinaria e duratura attività di estrazione e lavorazione dei metalli dall’antichità fino alla fase contemporanea, passando per la fase etrusco-romana, il medioevo, il rinascimento e l’ìndustrializzazione del XIX° secolo. E’ un patrimonio culturale unico, di rilevanza europea e mondiale, che merita la dovuta attenzione, tanto più se si considera che per la sua valorizzazione sono state intraprese nei decenni passati molte iniziative da parte di istituzioni nazionali, regionali e locali e da istituti di ricerca universitari nazionali ed esteri. Non è un caso che qui abbiano preso vita il sistema dei Parchi della Val di Cornia (di cui sono parte costitutiva l’antica città etrusca di Populonia e il villaggio minerario medievale di San Silvestro), il Parco Tecnologico Archeologico delle Colline Metallifere, il Parco Minerario dell’Isola d’Elba, fino alla recente apertura del Museo del Ferro e della Ghisa a Follonica. I grandi impianti siderurgici dismessi dello stabilimento Lucchini sono il cuore della fase contemporanea di questo patrimonio e possono costituire uno straordinario valore aggiunto storico e documentale. Pensare alla loro demolizione per creare, ammesso che sia possibile, occupazione temporanea senza nessuna idea di cosa accadrà su quei terreni una volta rasi al suolo i vecchi impianti è semplicemente un crimine culturale. Sconcertano il silenzio delle istituzioni e dello stesso mondo accademico, un tempo, anche se non sempre, più vigile nell’evitare scempi e distruzioni del patrimonio culturale, compresa l’archeologia industriale. Sconcerta che non si ponga attenzione alle esperienze europee che, a partire da crisi analoghe, hanno saputo ricostruire identità territoriali, economia e nuova occupazione. Venti anni fa, quando in Italia veniva smantellata l’Italsider di Bagnoli, la Germania diceva addio alle miniere della Ruhr, cuore dell’industria pesante tedesca, per dare avvio ad un programma di riconversione di un’area vasta che comprendeva 53 comuni con circa 5 milioni e mezzo di abitanti. Quell’area è oggi un insieme di monumenti industriali, di musei, di miniere aperte al pubblico, di strutture per eventi culturali, di paesaggi recuperati e ricostruiti, tant’è che nel 2010 la Ruhr è stata eletta capitale europea della cultura. Tra fondi europei e privati si stima che siano stati investiti quasi 600 milioni di euro; una somma non molto diversa da quella che era stata preventivata per trasferire a Piombino i fanghi di Bagnoli. La differenza è che quei soldi sono stati spesi davvero, rapidamente e bene. In quella terra bonificata, dove perfino le colline di detriti sono diventate punti panoramici, sono stati creati oltre 20 mila nuovi posti di lavoro, molti dei quali assegnati a figli e nipoti di operai e minatori e ogni anno si contano circa 17 milioni di presenze turistiche. A Pompei i visitatori superano di poco i 2 milioni. Merita citare il commento di Heinz Dieter Klink, governatore della Ruhr dal 2005 al 2011: “Abbiamo creato una attraente metropoli della cultura del terzo millennio, dove l’aria è buona, gli abitanti vivono bene e hanno vicino casa molti stimoli per il loro tempo libero. Abbiamo creato un pilastro del tutto nuovo per il futuro della nostra terra: l’industria del turismo. Questo vuol dire che, recuperando la memoria degli ultimi due secoli, abbiamo investito bene sul futuro”. Dall’esperienza della Ruhr ci separano molte cose, a partire dalla dimensione territoriale (ma anche qui è possibile creare un distretto culturale molto esteso) e dal fatto che il patrimonio culturale italiano è molto più vasto e diffuso di quello tedesco. Non c’è dubbio, però, che in questa parte della Toscana meridionale esistono straordinarie peculiarità culturali come la continuità millenaria delle lavorazioni metallurgiche e un solido contesto turistico rappresentato dalla stessa Val di Cornia, dall’ Alta Maremma e dall’isola d’Elba che costituiscono indubbi fattori competitivi. L’altoforno e l’acciaieria dismessi a Piombino distano pochi chilometri dai quartieri industriali dell’antica Populonia dove gli etruschi fondevano il ferro oltre duemila anni fa e poche centinaia di metri dal porto da cui transitano annualmente circa tre milioni di passeggeri. Condizioni queste non rinvenibili nella Ruhr come in molte altre realtà europee che, a partire dalla crisi, hanno avviato processi di riconversione economica basati sulla valorizzazione del patrimonio storico-industriale. La differenza, quindi, più che nei contesti territoriali, deve essere ricercata nel deficit di visione politica e nella capacità di affrontare progetti complessi e intersettoriali di cui il patrimonio culturale costituisce parte non marginale. Persino la memoria difetta, basta pensare che questa tematica non è estranea alla elaborazione politica ed istituzionale della Val di Cornia se è vero che fin dal 1984, dopo la stagione dei piani regolatori coordinati e contemporaneamente alla elaborazione dei loro strumenti attuativi, si ragionava, non solo in termini teorici ma anche operativi, sui beni culturali in una zona di crisi siderurgica. Di questo a Piombino oggi non si parla, come non se ne parla negli infiniti e non attuati accordi istituzionali dove l’autorità dei soggetti sottoscrittori ha fatto spesso da contraltare alla vaghezza dei propositi enunciati. Nel frattempo nel 2010 è stato demolito il più vecchio altoforno dello stabilimento Lucchini, l’ AFO 1, spento da decenni. Al suo posto è stato costruito un nuovo impianto per la frantumazione delle scorie, probabilmente destinato anch’esso alla dismissione. Per effettuare quella demolizione l’amministrazione comunale in carica rimosse i vincoli urbanistici che venti anni prima altre amministrazioni avevano posto a tutela di un impianto che già allora veniva considerato patrimonio culturale. Le premesse, quindi, non sono buone, ma c’è ancora un margine per agire. Si apra seriamente un confronto urgente con tutte le componenti politiche, economiche, sociali e culturali, nazionali ed europee, interessate ad un progetto di riconversione di Piombino nel quale la componente storico culturale non sia concepita come risorsa residuale, ma come patrimonio della nostra storia produttiva da valorizzare nel presente e nel futuro prossimo. Un’ ennesima omissione sarebbe imperdonabile e allontanerebbe ulteriormente le speranze di una città e di un territorio che devono reinventare il proprio futuro con le idee, prima ancora che con accordi formali destinati ad alimentare la copiosa quanto inconcludente produzione di atti amministrativi inattuati. Ovviamente non si tratta solo di preservare impianti non più utilizzati, anche se per la verità la conservazione sarebbe già buona cosa. Il tema, così come per tutti i beni culturali, è la contestuale pratica della conservazione e della valorizzazione. Che gli impianti industriali dismessi, ancorché moderni, possano degnamente rientrare in un progetto di archeologia industriale non solo è sostenibile con argomentazioni teoriche, ma anche con esperienze concrete come la già citata Ruhr, la Saar e altre ancora. Questi propositi, del resto, erano già presenti negli studi sui parchi culturali promossi dalla Regione Toscana nel 1994 e hanno costituito la base per la realizzazione del sistema dei parchi della Val di Cornia, tutt’oggi considerata una delle migliori pratiche italiane in materia di valorizzazione del patrimonio culturale, con una visione integrata che unisce le valenze culturali con quelle territoriali e le une e le altre con quelle economiche, intendendo con ciò la sostenibilità gestionale e la capacità di produrre ricadute sull’economia e sull’occupazione. Di tutto ciò non c’è traccia nell’accordo di programma per la reindustrializzazione dell’ aprile 2014 la cui filosofia nient’altro è che la messa a disposizione di un po’ di finanziamenti pubblici a titolo di incentivazione e chi vivrà vedrà. A Piombino e in Val di Cornia serve un progettazione ben più complessa con una strategia nella quale la valorizzazione culturale sia solidamente ancorata alla sostenibilità economico-finanziaria, con un approccio metodologico nel quale i finanziamenti pubblici sono l’ultima evenienza e convenienza, non certo la prima. Qui, a partire da quello che è già stato realizzato negli anni passati e di fronte alla rilevanza storica degli impianti dismessi nelle acciaierie di Piombino nel 2014, è possibile immaginare lo sviluppo di un distretto culturale vasto, esteso almeno all’isola d’Elba e alle Colline Metallifere, superando modelli organizzativi frammentati e gestioni troppo spesso dipendenti dai trasferimenti pubblici. Cosa molto diversa dal proporre, come fanno taluni esponenti dei Comuni, la trasformazione della Società Parchi Val di Cornia ( l’unica, peraltro, che ha una maggiore propensione all’autofinanziamento) in un altro ente parco con l’unico intento di trasferire su altri enti pubblici l’onere di coprire le perdite d’esercizio, molte delle quali generate dal fatto che sono stati gli stessi Comuni a sottrarre alla loro società di gestione le risorse finanziare generate proprio nei parchi, come è stato il caso degli introiti dei parcheggi del parco naturale della Sterpaia e del parco archeologico di Baratti e Populonia a Piombino.
E’ una sfida complessa ma potenzialmente capace di rilanciare lo sviluppo di un progetto culturale in grado di creare nuova economia e di connotare il futuro di una parte rilevante della Toscana. Impegno difficile, certamente, ma se gli enti pubblici territoriali e nazionali non si assumessero quest’ onere cos’altro dovrebbero fare?
Foto di Pino Bertelli)