Da Piombino a Enschede guardando avanti
PIOMBINO 23 febbraio 2017 — Qualche tempo fa, mio fratello Marco ha raccontato la sua storia dal Nord Carolina, davanti ad un cappuccino. A Natale sono finalmente riuscito ad andarlo a trovare; durante il mio viaggio di ritorno in Europa, con lo sguardo che passava dai monti Appalachi ai grattacieli newyorkesi, la mente tornava al suo punto di partenza, ripercorrendo i passi che mi avevano portato lì. Adesso sono su un altro treno, diretto all’aeroporto, per tornare a Piombino. Con le spalle verso la direzione di marcia, vedo mulini, ponti e canali sfrecciarmi davanti e rallentare non appena trovano il loro posto nel mio passato: la condizione migliore per mettere gli eventi in fila e finire il mio racconto.
Mi chiamo Sandro e sono piombinese. Forse a questo punto dovrei iniziare a dire “vengo da Piombino” o “sono cresciuto a Piombino”, ma preferisco la prima versione per motivi che saranno più chiari man mano che leggerete questo racconto.
Sono nato nel 1984 e da piccolo tutto si sarebbe potuto immaginare tranne che sarei andato a finire lontano da casa, visto che ho sempre frequentato posti che, volendo, avrei potuto raggiungere “a piedi”.
Finché sono stato a Piombino non ho avuto il desiderio di muovermi e questo nonostante che i nostri genitori abbiano fatto viaggiare e studiare l’inglese (quante volte li ho ringraziati per questo negli anni seguenti!) me e mio fratello fin da piccoli. Abbiamo avuto la fortuna di vedere posti lontani ad est e ad ovest della nostra piccola porzione di globo e questo mi ha fatto capire che il mondo è molto, molto grande e vario ma non ha spostato quello che io percepivo come il suo centro, che, per caso, coincideva con Piombino.
Tutto ha iniziato a cambiare durante il liceo. In quegli anni sono successe tante cose, non tutte belle, e quasi senza accorgermene è arrivato il momento di scegliere cosa fare dopo l’esame di stato.
La scelta era tra andare a studiare ingegneria o filosofia. In entrambi i casi a Pisa. Non è che abbia escluso l’opzione di restare a Piombino per qualche motivo specifico, semplicemente non mi è passata neanche per la testa.
Qualcuno potrebbe pensare che volessi allontanarmi o lasciarmi alle spalle qualcosa, ma a posteriori posso dire che la causa era molto diversa. Proprio in quegli anni, infatti, una persona mi disse che alcune cose sono come la pioggerella fine, che ti cade addosso e neanche la senti e dici “non ho bisogno dell’ombrello”, e ad un tratto ti accorgi di essere fradicio. La mia pioggia era lo spostamento del centro percepito dell’universo da un luogo fisico – Piombino – a uno percepito – Sandro. Mi ci sono voluto anni per zupparmi e prenderne consapevolezza, ma a diciannove anni ero già bello bagnato…
Dopo tanto pensare, ho scelto di iscrivermi a ingegneria biomedica. Trovai una stanza singola davanti all’università perché una piombinese, che al tempo non conoscevo, disse a mia madre che dove viveva si era liberato un posto e così, dopo una breve visita, decisi di diventare il quinto studente dell’appartamento, composto da due piombinesi, un siciliano, un pugliese e un sardo.
Il modo con cui ho trovato la stanza può essere comune e apparentemente insignificante, ma è una cosa che tornerà più volte nel resto di questa storia; per me ha una grande importanza e spero di riuscire a convincervi che non ne ha solo per me.
I corsi iniziarono a settembre e alla prima sessione di esami (a gennaio) iniziai seriamente a trovarmi a studiare con dei colleghi, iniziando a costruire quello che sarebbe diventato uno dei nuclei più duraturi delle mie amicizie pisane, composto da un calabrese, diversi maremmani e qualche pisano, latinese, spezzino e massetano.
Per qualche anno Piombino uscì quasi dal mio orizzonte percettivo, ricordato giusto dagli amici di vecchia data che vennero a studiare a Pisa, ma, essendoci trapiantati in momenti diversi, ognuno prese delle routine diverse (almeno all’inizio). Eppure, quando meno me l’aspettavo, fu proprio un piombinese che mi permise di fare la scelta che ha determinato un numero vertiginoso di eventi futuri, compresi quelli che mi hanno portato fuori dall’Italia.
Fu quando scelsi la tesi triennale. In genere, la tesi viene scelta attraverso i canali offerti dal proprio corso di studi, ovvero chiedendola a uno dei propri docenti. Io però ero (stranamente!) indeciso. Mi piacevano tante cose ma nessuna svettava sulle altre. Fu così che andai a chiedere un parere a un amico di famiglia (che al tempo non conoscevo personalmente) che insegna biologia alla Scuola Normale Superiore. Ricordo che la discussione fu – più o meno – questa:
“Mi piacerebbe studiare l’occhio”,
“Mmm… sull’occhio non conosco nessuno, ma conosco un fisico che sa tanta biologia e ottica, magari ha qualcosa che ti interessa, vacci a parlare”.
E così, per una pura associazione di parole, iniziai la tesi al dipartimento di Neuroscienze del CNR di Pisa, nel laboratorio di “Gimmi” Ratto, la persona che più d’ogni altra mi ha insegnato la passione per quello che poi è diventato il mio lavoro.
Più che i risultati, quello che quell’esperienza mi ha dato è stato un cambio di visione: interagire con persone con formazioni molto diverse – dalla biologia alla fisica, passando per la psicologia – mi ha convinto che il mio modo di fare scienza non è tanto applicare quel che ho studiato per andare direttamente da A a B, ma usarlo come trampolino per provare a saltare un po’ più in là del limite attuale della conoscenza. In quell’ambiente ho imparato a riunire la mia indecisione iniziale tra filosofia e ingegneria, cercando di dare alla prima il controllo sul dove indirizzare la seconda.
Sono rimasto in contatto con il gruppo di Gimmi durante gli anni della specialistica, finché Piombino dette un’altra piccola correzione alla mia traiettoria. Il gruppo infatti si trasferì dal CNR al laboratorio di nanotecnologie NEST della Scuola Normale; io lo seguii e una volta lì scoprii che uno dei gruppi che vi lavoravano progettava (e realizzava) superfici nanostrutturate capaci di trasmettere stimoli alle cellule che vi crescevano sopra, influenzando la forma che queste avrebbero assunto, la direzione in cui avrebbero migrato e, in alcuni casi, anche il tipo di cellula che sarebbero diventate “da grandi”.
La possibilità di studiare quella che mi apparve “la segnaletica stradale” della biologia cellulare catturò completamente il mio interesse e andai a chiedere se fosse possibile sceglierlo come argomento della tesi specialistica. Ora, indovinate da dove viene il ricercatore che gestiva questa linea di ricerca? Esatto, Piombino! Sotto la guida di Marco Cecchini ho iniziato a lavorare in camera pulita, fabbricando strutture di una frazione di micron (un millesimo di millimetro) che usavamo per controllare la direzione di crescita di cellule neuronali.
Questo argomento mi è piaciuto tanto che quando mi sono laureato ho realizzato di non averne avuto abbastanza ed ho fatto il concorso per iniziare il dottorato di ricerca in biofisica molecolare alla Scuola Normale Superiore, nello stesso laboratorio. Il progetto diceva (più o meno) “controllare la segnaletica stradale ci piace ma non ci basta, vogliamo anche i semafori” e per farlo abbiamo iniziato a costruire dei microcanali sopra alle nanostrutture, in modo da poter controllare le sostanze chimiche che, all’occorrenza, sarebbero state somministrate alle cellule per creare stimoli variabili nel tempo. Visto che questi dispositivi sono composti da microcanali (nell’ordine del millesimo di millimetro) e che controllano i fluidi, sono detti microfluidici.
In tutta onestà, il mio inizio con la microfluidica è stato tutt’altro che idilliaco. Non avevo nessuna esperienza a riguardo e una conoscenza teorica molto elementare tanto che ho perso il conto delle volte che ho pensato: “Non vedo l’ora di chiudere questo capitolo per non sentire più la parola microfluidica”. Poi però, come in tutte le storie che si rispettino, ho iniziato ad appassionarmi alle applicazioni e potenzialità di questa tecnologia e, quando ho iniziato a vedere la fine del dottorato, è stato naturale cercare un posto dove continuare questa ricerca.
Avevo vissuto dodici anni a Pisa e sarebbe logico pensare che avessi messo radici lì, dove avevo coltivato amicizie che sentivo non avrei mai perso, sia dentro che fuori il laboratorio, tuttavia mi sembrò una buona idea vedere se da qualche parte, magari in un posto vicino tipo il Giappone, ci fosse qualcuno che facesse una ricerca interessante.
A questo punto della mia storia, ero completamente fradicio, per restare nella metafora della pioggia, e quando saltò fuori che effettivamente in un laboratorio molto prestigioso a Kyoto cercavano un profilo esattamente come il mio, mi preparai a continuare il mio lavoro in estremo oriente non appena avessi ottenuto il dottorato.
Avevo trent’anni, pochi mesi dal dottorato, piano A e B accordati con il mio futuro capo ed il supporto del mio vecchio laboratorio nel caso in cui qualcosa fosse andato storto, ero nella condizione migliore per imparare una nuova lezione: l’alfabeto non ha abbastanza lettere per elencare i piani necessari a contenere gli imprevisti. Venne infatti fuori che il mio contatto giapponese si era dimenticato di darmi un dettaglio che mandava a monte l’intero programma e, mentre mi franava il terreno sotto i piedi, mi misi ad aggiornare il curriculum e cercare dove mandarlo, cercando di costruirmi una caduta morbida.
Fu così che durante le vacanze di Natale 2014 un amico (santo Trava!) mi inoltrò l’annuncio di una posizione per un post-doc in azienda in un posto sperduto in Olanda. Il profilo che cercavano sembrava scritto leggendo il mio CV, compresa la parte sulle mie aspettative future, dovevo solo convincere tre colleghi a scrivermi una lettera di presentazione tra il 23 (quando lessi la posizione) e il 28 dicembre (quando il bando si sarebbe chiuso). Fu un bel regalo di Natale, perché quelle lettere colpirono i responsabili di ricerca e sviluppo di Micronit Microtechnologies, che mi contattarono per il colloquio e, alla fine, mi affidarono la posizione.
Mi sono trasferito ad Enschede a marzo 2015 e da allora lavoro come Scientist allo sviluppo della piattaforma di colture cellulari della compagnia.
In questi due anni, l’Olanda mi ha dato tanto, a partire dalla fiducia, continuando con lo spazio e finendo con la possibilità di crescita personale. Ovviamente è un posto molto diverso dalla Toscana, ma, dopo le prime difficoltà iniziali (principalmente legate ai diversi ritmi di vita, abitudini alimentari e eredità cinematografica dei film di gangster), tutto è andato liscio.
Ci sono stati dei momenti nostalgici, come quando ho aperto lo scatolone del trasloco e, scartando gli imballaggi che con infinita cura i miei genitori hanno fatto per proteggere la forma materiale dei miei ricordi toscani, è emerso il quadro di Baratti dipinto da mio zio, o confusamente patriottici come quella volta che, appena arrivato e senza “le mie cose”, presi un ramaiolo in un cassetto dell’appartamento che avevo affittato e mi cadde l’occhio sul timbro della fabbrica: “Acciaierie di Livorno”. Mario, ricordi quando trovasti scritto “Acciaierie di Piombino” sui binari calabresi, beh, questa volta credo di aver vinto!
In questi due anni ho anche avuto modo di viaggiare fuori dall’Olanda, visto che il mio progetto di ricerca (SAMOSS) coinvolge sei università europee e prevede che una volta ogni sei mesi ci troviamo per un workshop e la presentazione dei nostri risultati ed imparare dai colleghi con specializzazioni diverse. Ho avuto modo di incontrare gli altri ragazzi (tutti, come me, hanno dovuto, per contratto, trasferirsi in un paese diverso dal loro) in Olanda, Israele, Spagna, Austria, Italia e li incontrerò di nuovo (e per l’ultima volta) in primavera in Francia. Mi hanno ospitato nei paesi nei quali inizialmente erano ospiti ed io ho fatto lo stesso per loro, imparando molto sul concetto di mobilità, sia a breve che a medio termine.
So che questa esperienza continuerà a cambiarmi (spero a migliorarmi) e che cercherò il più possibile di integrarmi, ma il mio obiettivo è di imparare “l’olandesità”, non di diventare olandese. Sto cercando di imparare quelle caratteristiche che ritengo complementari al mio modo di essere (ad esempio, essere più pragmatico e meno formale), ma cercando di metterle a fianco all’eredità culturale italiana della quale sono orgoglioso.
Alla fine, per dirla con parole di Douglas Adams, “may not have gone where I intended to go, but I think I have ended up where I intended to be” (“posso non essere finito dove cercavo di andare, ma credo di trovarmi dove dovevo essere”): l’importante è sapere da dove vieni e continuare a correre guardando avanti.