Quattro donne in un nuovo, sconosciuto paese
Quattro donne che si sono dovute confrontare con il problema dell’immigrazione, con un paese che hanno dovuto lasciare e con un paese nuovo che in cui sono state costrette a vivere. Neanche per scelta. Con una cultura diversa, con tradizioni e leggi che non conoscevano. Così parlano della loro esperienza.
Radhia
Sono tunisina. Ho 27 anni, mi sono sposata a 21. Io ho scelto mio marito. Quando abbiamo fatto il matrimonio eravamo vestiti all’occidentale: io avevo l’abito bianco e lui giacca e cravatta.
Da quando sono in Italia ho sempre abitato al Cotone. I miei figli sono arrivati in Italia e all’ospedale, fin dalla prima gravidanza, sono stati sempre molto gentili: ho sentito che mi volevano bene. Al primo bambino non parlavo italiano e non capivo, c’era una traduttrice, ma non sempre era disponibile ad accompagnarmi, così una volta, al Consultorio, per la disperazione mi sono messa a piangere. Al secondo figlio mi sono detta: “Basta! Voglio andare da sola e parlare in italiano”. Mio marito mi spingeva ad andare da sola e anche io non volevo che lui dovesse scappare dal lavoro quando c’era una difficoltà e correre per strada con la macchina quando uno dei bimbi stava male.
Da quando vengo alla scuola di alfabetizzazione del Cotone mi trovo meglio. Parlo poco fuori con le donne italiane: ho poche occasioni, anche perché ho sempre avuto una vicina di casa marocchina, che parlava arabo e con lei abbiamo subito fatto amicizia.
In Italia mi trovo bene perché cammino per strada tranquilla: gli uomini italiani sono intelligenti e non mi danno fastidio. Non mi sono mai sentita osservata o giudicata, neanche dalle donne italiane. Tornerei volentieri in Tunisia, ma solo per vedere la mia famiglia, perché qui, sia io che mio marito ci sentiamo molto più tranquilli e liberi.
La scuola è un posto dove sto bene, succedono sempre cose belle. Mi piacerebbe che si attivasse anche un corso di arabo, perché queste cose fatte insieme, anche con le donne italiane sono molto belle, ci fanno stare
Astou
Sono nata a Dakar. Dakar è una città grande, ci sono due ospedali. Io stavo con la mia mamma, con mio padre e mio fratello: eravamo una famiglia piccola. Sono l’unica della famiglia che è venuta in Italia, insieme a mio marito. Sono arrivata in Italia il 18 ottobre 2009. Mi ricordo bene la data perché è stato un bel momento.
Ho delle amiche italiane: non sono del Cotone, sono le donne che incontro al mare, l’estate, quando vado a lavorare. Sono brave le donne italiane. Al Cotone le donne giovani sono poche, un paio di loro, le più giovani, sono molto gentili; le altre sono troppo anziane per parlarci. Andare al mare mi fa molto bene per imparare l’italiano. Mi fa bene anche la scuola, ma secondo me si fanno poche ore e poi c’è una grande confusione perché le marocchine parlano tanto tra loro. Parlano l’arabo ed io lo conosco poco: un pochino lo so perché leggo il Corano, sono musulmana come loro.
Fra noi donne senegalesi ci aiutiamo. Per esempio: quando ho avuto bisogno ho lasciato i bimbi ad una mia amica senegalese e, quando lei non c’era, anche solo a suo marito. Tornerei volentieri in Senegal. Perché? Perché “Io abito là”.
Amina
Ho 44 anni, mi sono sposata molto giovane, ma non potevo avere figli e così mio marito si è separato molti anni fa: ora lui ha dei figli. Non ho voluto altri mariti, quando sono rimasta sola, sono tornata dalla mia mamma e da mio fratello. Non ho mai lavorato nel mio paese. Sei anni fa sono venuta in Italia per lavorare ed aiutare la mia mamma che è rimasta in Marocco. Abito dalla mia nipote e talvolta sto dalla cognata di mia nipote: ci aiutiamo. Sul lavoro, con le donne italiane, mi sono sempre trovata bene: ho un’amica italiana a Venturina, si chiama Giusy; la padrona della casa dove faccio le pulizie è sempre molto gentile con me, mi spiega molte cose.
Quando non capisco mi dico:” Piano, Amina, piano piano, non essere nervosa”. E riesco a fare tutto, anche in farmacia o in ospedale.
Vengo volentieri alla scuola di italiano del Cotone perché in casa si parla solo arabo e perché perderei la capacità di parlare italiano, dal momento che vado anche spesso in Marocco. Mi piace la scuola perché imparo anche a scrivere: nel mio paese non l’ho mai fatto. Se insegneranno l’arabo vorrei imparare anche quello.
Fatima
Sono nata a Sokassabat, un paese il cui nome significa “Mercato del sabato”, nella provincia di Banimalal: la città più vicina è Marrakesh, ma si trova a più di cento chilometri.
A 17 anni mi sono sposata, era un bel giorno d’agosto ed i festeggiamenti sono andati avanti una settimana, ogni giorno un cambio d’abito, una grande festa con tanti parenti. Mio marito viveva già in Italia da 6 anni, però non poteva portarmi con sè, non aveva ancora una casa: ci vedevamo tre volte l’anno e ci telefonavamo ogni giorno. Nel 2007 mi sono trasferita anch’io in Italia e nel 2008 è nato il mio bambino, che ora ha cinque anni. Durante la gravidanza mi accompagnava mio marito ai controlli e chiedevamo che fosse sempre una donna a visitarmi. Allora non conoscevo per niente l’italiano.
Esco ancora molto poco, perché porto il velo che copre il viso e mi accorgo che, le rare volte che vado al mercato, la gente mi guarda male ed ora capisco anche che dice brutte parole di intolleranza. Sento che faccio paura, ma il velo non me lo toglierei mai, perché l’ho scelto io e preferirei tornare nel mio paese piuttosto che rinunciarci. Frequento la moschea, ho studiato l’arabo ed il francese, sono andata per sei anni a scuola ed insegno il Corano ai bambini.
L’italiano l’ho imparato qui, alla scuola di alfabetizzazione del Cotone che frequento da tre anni: la scuola mi piace perché l’italiano che conosco l’ho imparato qui e qui posso incontrare altre donne del mio paese, ma anche conoscere gente nuova: sono curiosa e mi piace parlare e scambiare informazioni con le mie maestre. Con le donne della scuola abbiamo fatto molte belle cose, tra l’altro un anno fa abbiamo festeggiato insieme l’8 marzo ed è stata una bella festa. Con l’italiano che ho imparato adesso mi sento più sicura: ad esempio, quest’anno, quando è venuta mia suocera, sono andata io con lei all’ospedale perché aveva bisogno di cure, mi sono sentita utile, perché mio marito non è stato costretto a chiedere permessi dal lavoro e sono riuscita a parlare con i medici e risolvere la situazione.
Alla scuola di alfabetizzazione, d’accordo con mio marito, abbiamo chiesto che ci venga data la possibilità di insegnare l’arabo ai nostri bambini, alle donne analfabete ed anche alle donne italiane che lo chiedano. Ci sono buone possibilità che si faccia ed io sono molto contenta. Qui alla scuola del Cotone mi sento bene, mi sento integrata.
(Foto di Pino Bertelli)
Si, perfette, sono proprio loro!!! Quattro delle magnifiche donne del Cotone-Piombino: le riconosco, le mie alunne. Grazie per aver dato spazio alle loro voci autentiche!!!