Un costoso braccio di ferro da evitare con la politica
PIOMBINO 4 luglio 2015 — Basterebbe accendere la televisione, sintonizzarla su un canale a piacere e seguire il relativo telegiornale per capire quanto nel nostro Paese (e non solo) i rapporti tra politica e giustizia siano talmente stretti da renderle, alle volte, facilmente confondibili. Questo non è certo un trend moderno ed anzi potremmo dire, con la dovuta cautela, che per la maggior parte delle volte sono stati i Tribunali (soprattutto, ma non solo, Cassazione e Consiglio di Stato) a cogliere per primi i cambiamenti sociali in atto e suggerire ai legislatori la necessità di aggiornare, mutare, rivoluzionare il sistema normativo esistente.
Non soltanto: sono i nostri Giudici, con l’imparzialità, la terzietà, l’indipendenza e l’autonomia che costituzionalmente li contraddistinguono a garantire quei limiti e quelle prerogative poste e formalizzate dal potere politico stesso.
Ogni volta che la giustizia e la politica si intrecciano, pertanto, ne derivano lunghi e accesi dibattiti pubblici: ultimo esempio in termini strettamente cronologici, la sentenza 972/2015 del TAR Toscana, che ha coinvolto i Quartieri, definiti dal Sindaco Giuliani come «l’istituzione più vicina ai cittadini», aventi «un ruolo di naturale interlocutore tra cittadini e amministrazione comunale su tutti i temi che riguardano la salvaguardia ed il miglioramento della qualità della vita sul territorio». La questione ormai è chiara, da giorni anima il dibattito cittadino e sembra inevitabilmente destinata a produrre conseguenze ulteriori sia politiche, inerenti ai rapporti del Partito Democratico con le forze di opposizione, sia giuridiche: conseguenze che, inevitabilmente, tornano ad intrecciarsi.
La sentenza del TAR infatti accoglie il ricorso presentato dai 5 Stelle per l’annullamento della delibera del Consiglio comunale n. 99 del 2014 avente ad oggetto l’interpretazione autentica dell’art. 12 del Regolamento per il funzionamento dei Consigli di Quartiere cittadini, della delibera n. 110 del 2014 riguardante la ratifica della composizione dei Consigli di quartiere e la nomina dei consiglieri, nonché ogni altro provvedimento prodromico e consequenziale. Il TAR ordina che la sentenza di accoglimento sia esecutiva e questo produce inevitabilmente un problema politico, più che giuridico. Infatti l’annullamento dei predetti provvedimenti comporta la necessità di riconsiderare immediatamente la composizione dei Consigli di quartiere, “eliminando” i nomi espressi dal PD e ridistribuendo i seggi divenuti così vacanti proporzionalmente tra gli altri partiti politici. Una volta decorsi i termini per proporre appello (sessanta giorni dalla notificazione alle parti del provvedimento giurisdizionale o, in mancanza della notificazione, sei mesi dalla pubblicazione), se il Comune non dovesse aver già provvisto ad adempiere al dettato della sentenza, la parte vincitrice potrebbe decidere di ricorrere al giudizio di ottemperanza per veder ratificata la nomina dei nuovi consiglieri. Così il Giudice potrebbe sostituirsi direttamente al Consiglio o magari nominare un Commisario ad acta affinché provveda ad adottare i relativi provvedimenti.
Tuttavia, il Comune potrebbe scegliere di proporre ricorso al Consiglio di Stato, sostenendo i relativi costi con la consapevolezza dei tempi non brevi che si dovrebbero attendere per una pronuncia definitiva sulla materia. Politicamente parlando, un’eternità durante la quale la politica si sottrarrebbe alle responsabilità decisionali che le sono proprie, delegando il tutto a provvedimenti giurisdizionali. In particolare, considerando il periodo di grave crisi economica della città, non sarebbe neppure particolarmente saggio far ricadere i costi sulla popolazione. Una soluzione, almeno a detta di alcuni (forse non del tutto soddisfacente ma che consentirebbe quanto meno di eliminare il profilo della spesa pubblica), sarebbe quella di far proporre ricorso solo al PD escludendo il Comune. Anche in questo caso però la strada da percorrere non è semplice, né tantomeno breve: leggendo il testo della sentenza, sembrerebbe infatti che solo il Comune si sia costituito in primo grado a differenza del PD che sarebbe rimasto contumace. Se la parte contumace, avendo un interesse nella causa, decidesse di proporre appello, si troverebbe investita di tutta una serie preclusioni processuali (il c.d. divieto di jus novorum, che impedisce di introdurre “novità” come ad esempio eccezioni non rilevabili d’ufficio o nuove prove). Insomma, il PD non avendo svolto una propria difesa nel precedente grado di giudizio potrebbe unicamente sostenere che la legge va interpretata diversamente da com’è stato fatto dai giudici del TAR senza addurre alcuna novità, ma non solo. Infatti anche in questo caso il Comune dovrebbe essere chiamato in causa, poiché la sentenza del Consiglio di Stato esplicherebbe la sua efficacia anche nei confronti di questo: a meno che il PD non riesca a dimostrare che le due posizioni sono scindibili e quindi la presenza di due pronunce di contenuto diverso, nei confronti del Partito e nei confronti del Comune, possono sussistere senza contraddirsi tra loro.
Una soluzione che tenga conto dei risultati elettorali e del relativo principio di rappresentatività è auspicabile dal punto di vista politico, come lo sarebbe stato cercare di mediare prima di intraprendere un braccio di ferro giurisdizionale: a prescindere dall’interpretazione più o meno autentica di una norma regolamentare ci si auspica che la sentenza di primo grado possa essere accolta come un invito ad assumersi le proprie responsabilità politiche e ad intraprendere seppur tardivamente un percorso dialettico con chi, giuridicamente, in questo caso ha avuto ragione.