Un quasi fallimento e un futuro inquietante
PIOMBINO 15 novembre 2013 — Quello della Lucchini è un fallimento formalmente e proceduralmente in corso
(http://www.lucchiniamministrazionestraordinaria.it). Quella del territorio e dei suoi abitanti una crisi dai contorni inquietanti. Naturalmente oggi gli ammortizzatori sociali aiutano ed assistono ma in realtà dovrebbero servire per traghettare un passaggio da un disequilibrio ad un equilibrio o forse da un disequilibrio maggiore ad un disequilibrio minore, non certo per la sopravvivenza eterna, anche se in Italia il loro uso è così assistenziale che proprio di questa sono sinonimo. Se n’è accorto recentemente anche il Ministro del lavoro, Enrico Giovannini.
Il Commissario straordinario Piero Nardi l’ha scritto chiaro e tondo:
- il ciclo a caldo a Piombino manca di alcuni impianti e, alle attuali condizioni, presenta un gap negativo molto elevato rispetto a strutture a ciclo integrale comparabili per dimensioni e volumi di produzione,
- il 70% della produzione di Piombino si confronta sul mercato con produttori da forno elettrico, più flessibili e legati al costo del rottame che praticamente sempre negli ultimi 25 anni è stato inferiore al costo dei minerali,
- negli ultimi cinque anni la Lucchini ha sofferto di carenze come volumi di produzione bassi, solo una modesta parte di prodotti a margine positivo, concorrenza del forno elettrico più competitivo,
- l’altoforno è a fine corsa tecnica,
- l’impatto economico delle prescrizioni AIA e delle leggi ambientali è sempre più pesante per il ciclo integrale.
L’azienda è strutturalmente in perdita e dunque va venduta.
Che ci sia qualcuno che la vuole prendere così come è è un puro sogno.
Dunque si andrà ad una riduzione le cui dimensioni è difficile prevedere ma comunque consistenti.
Di qui la giuste preoccupazioni per soluzioni che cancellino il tradizionale forte presidio industriale e la necessità di pensare a un processo di reindustrializzazione che si occupi del futuro della Lucchini ma anche delle criticità e delle potenzialità dell’intero territorio.
Ma qui arrivano i problemi.
Come in molti altri casi è già scattato il riflesso condizionato che tanti guai ha fatto nella storia d’Italia dalla metà degli anni ’70 in poi, quello dell’intervento finanziario pubblico per progetti non sostenuti imprenditorialmente, non capendo che l’intervento pubblico è spesso utile ma solo a sostegno di un progetto che comunque sta in piedi finanziariamente ed economicamente. La logica dei prestiti della Banca Europea degli Investimenti è questa mica altro, quella delle sovvenzioni europee per ricerca e sviluppo poi consiste nel sostegno a esperimenti e prototipi, mica nella industrializzazione di ciò che è già stato sperimentato ed applicato. Qui invece non solo si immaginano soluzioni che in Europa non sono più possibili da anni (nemmeno ai tempi del Commissario Etienne Davignon erano possibili), ma addirittura si pensa di far passare come ricerca e sviluppo soluzioni tecnologiche vecchie di trent’anni e già industrialmente realizzate nel mondo, per non parlare della ricomparsa dell’idea di aziende miste pubblico/privato che erano da ritenersi morte e sepolte. E da non resuscitare.
Per non parlare del progetto di costruzione del, sottolineiamo l’uso della locuzione “del” non della locuzione “ di un”, polo europeo della rottamazione navi che viene messo in mano ad un ente pubblico come l’Autorità portuale, facendo finta di non sapere che esso ha una valenza imprenditoriale che solo un operatore privato può valutare. Tant’è che sarebbe più giusto parlare, così dice il tanto citato Regolamento europeo in fieri (per leggere clicca qui), di impianto di riciclaggio navi e di impresa di riciclaggio. A parte il fatto che nessuna istituzione, nemmeno l’Unione Europea, può decidere dove sarà un qualsiasi impianto di riciclaggio navi salvo stabilirne i requisiti, forse l’Autorità portuale dovrebbe prioritariamente capire bene se le opere infrastrutturali da realizzare in virtù dell’attuale finanziamento pubblico sono in sintonia e coerenti con un eventuale progetto per un impianto per la rottamazione delle navi. Ed anche se sono coerenti con l’altrettanto eventuale, anche se improbabile, arrivo della Costa Concordia, che peraltro nessun ente pubblico può decidere d’imperio dove vada, stante il fatto che si tratta di un rifiuto speciale, anzi sarebbe meglio dire esplicitamente pericoloso.
C’è insomma in aria un acre sapore di statalismo e di dirigismo che la realtà non può non mettere in discussione.
Ciò che non convince poi è l’estemporaneità delle proposte, quasi che questa non sia stata la cifra proprio di questi ultimi anni durante i quali sono emerse e sono cadute una dietro l’altra tutte le idee salvifiche annunciate (fanghi di Bagnoli, ristrutturazione e sviluppo dello stabilimento Lucchini addirittura con nuove produzioni, accordi di programma ambientali ed infrastrutturali e chi più ne ha più ne metta). C’è una ragione? Forse molte ma sicuramente una che ha una spiccata connotazione politica: la mancanza di elaborazione autonoma locale dalla quale consegue l’estemporaneità e la non volontà di misurarsi con le compatibilità economiche e giuridiche che è il modo migliore per deragliare.
E questo atteggiamento ha fatto perdere molto tempo tant’è che oggi ci si trova senza un progetto d’area e senza proposte imprenditoriali.
Difficile a questo punto indicare vie di soluzione ma in ogni caso non andrebbe persa l’opportunità della definizione di Piombino come area di crisi e utilizzare le possibilità che da essa possono scaturire, anche se il modo in cui è stata gestita, in questo intreccio taciuto ma presente tra accoglimento della Costa Concordia e crisi siderurgica, ha fatto perdere l’occasione di mettere in campo quelle analisi dalle quali le eventuali proposte sarebbero stato giustificate un po’ più compiutamente. E avrebbe permesso di osservare a 360 gradi tutto il territorio con i suoi punti forza e quelli di debolezza.
A questo punto, senza immaginare l’impossibile, non resta che partire da ciò che manca per dare competitività a qualunque iniziativa imprenditoriale, sia essa la produzione di energia elettrica a costi minori oppure l’adeguamento delle infrastrutture con progetti realizzabili o il recupero di aree già industriali attraverso la bonifica e la conseguente messa a disposizione di innovative start-up e di imprese vere già esistenti. Vere, non certo servizi pubblici locali ai quali viene la bramosia di trascurare il loro mestiere per farne un’altro che non possono e non devono fare. E sempre con l’atteggiamento di chi considera il finanziamento pubblico come l’aiuto non come la soluzione. Insomma non l’elenco della spesa con poste di bilancio fatte di un elenco di leggi ma uno o due, comunque pochissimi, fulcri su cui poggiare contenutisticamente e finanziariamente.
È vero, i tempi stretti ai quali la situazione costringe complicano terribilmente tutta la faccenda, ma immaginare soluzioni come quella di continuare a produrre col ciclo integrale non solo nelle more dell’espletamento delle procedure di vendita dello stabilimento ma addirittura fino al momento della costruzione di nuovi impianti che stanno ad oggi solo nei desideri dà l’impressione di continuare nella strada che ha portato al cul-de-sac attuale. Meglio finalmente mettere la palla al centro e pensare ad una organica reindustrializzazione con dentro quella riconversione delle risorse umane che ne deve fare da supporto. Problema la cui soluzione non è affatto semplice ma certamente possibile ammesso che non si pensi di risolverla con qualche corso di formazione continua o poco più o ritenere che in fin dei conti la cassa integrazione è già un ammortizzatore sociale sufficiente.
(Foto di Pino Bertelli)