Una giornata passata al Pronto Soccorso
Da anni, fortunatamente, non mi capitava di frequentare il Pronto Soccorso di Villamarina e mi auguro di non averne più bisogno.
Purtroppo quest’anno per ben 4 volte, mio malgrado, mi sono ritrovato in quella sala di attesa, non grande, ma, insieme alle sofferenze fisiche delle persone, carica di tensione, sospiri, attese interminabili.
Una di queste quattro volte vi ho accompagnato mio suocero, una persona di 85 anni, su indicazione del suo medico curante.
Erano le ore 10–10,30, la visita al Pronto soccorso, per cautela, era dovuta ad una gamba gonfia e a un leggero malessere al petto. Una visita necessaria e come risulterà, poi, opportuna.
Questa premessa, per dire che quanto racconterò non investe la professionalità e disponibilità del personale paramedico, né di quello medico. Racconterò l’esperienza di una persona di 85 anni, che entra alle 10,30 circa al pronto soccorso, si ritrova, prima su una sedia e poi in un lettino e, alle 19,00, forse oltre, gli viene comunicato che dovrà essere ricoverato, rischio una trombosi.
Quindi, nessuna polemica sulla prestazione medica, ma sui tempi e sul sistema sicuramente sì, anche perché in tutte quelle ore non c’erano state urgenze né da codici rossi né gialli.
Dopo le prime analisi, verso le 14 (avevamo già superato l’ora del pranzo ma questo era l’ultimo dei pensieri), busso alla porta del personale paramedico per chiedere notizie. Mi viene detto che dagli esami sembra tutto ok, compreso elettrocardiogramma, ma bisogna attendere perché c’è da fare qualche altra verifica. Mi rassegno e seduto in fondo alla sala fermo la mente e il mio sguardo verso chi, fino a quel momento era passato da quel luogo e aspettava come me o chi vi era entrato da poco.
Non era certo la curiosità morbosa di chi vuol conoscere i problemi, le sofferenze altrui, quanto la curiosità delle immagini che mi scorrevano davanti, i personaggi, i loro racconti. Persone che dipingevano con atteggiamenti e parole il loro vivere quotidiano, le loro sofferenze e tutti diventavano attori di un quadro familiare o personale proiettato nell’unica parete bianca della sala. C’era il ragazzo di 16–17 anni che, con i pantaloni incollati nella parte bassa dei glutei mostrava i suoi boxer con scritto UOMO e con una stampella saltellava fuori e dentro la sala quasi orgoglioso della sua prima slogatura. La madre, dalle curve non omogenee, ma messe in rilievo da pantaloni e maglietta nera tassativamente attillata, al cellulare, con voce squillante cercava di spiegare a tutto il mondo come era successo:” Il bimbo voleva fare la piaggiata, gli ho detto di no e lui ha sferrato un calcio alla borsa della spesa dove c’erano due confezioni di sapone liquido per lavatrici, sai quelle prendi due paghi una…?!!”
E altri che si incontravano, malauguratamente lì, dopo tanto tempo e si chiedevano :”Come va?” Ma come, “come va!?” mi domandavo, siamo al pronto soccorso, come vuoi che vada se ti va bene ti ingessano o ti ricuciono.
Sono passate le ore 17,30, non so più niente, non so in quale corridoio o stanza si trovi mio suocero, quanti chilometri abbia dovuto percorrere su quel lettino. Mi rifaccio vivo e chiedo informazioni sulla sua situazione. Intanto il personale è cambiato e devo rincominciare i mie contatti: “Scusi sono il genero…”, far capire che son stanco e che incomincio ad essere un po’ preoccupato. Dopo un po’ mi rassicurano, “aspettiamo le risposte di un ultimo esame” , mi viene detto, credo una ecografia. Intanto altri personaggi sfilano davanti a me, chi ha un occhio tappato, chi un dito fasciato con un fazzoletto, c’è anche l’abitudinario che tenta da giorni il ricovero a tutti i costi. Alle 18,30, un mio caro amico, infermiere al pronto soccorso che non vedevo da anni, mi saluta e mi domanda del perché sia lì. Molto meglio del “Come va?”. Dopo un po’ esce e mi informa che il medico di prima ha finito il turno, le risposte ci sono ma bisogna che il nuovo medico che è subentrato verifichi e prenda le decisioni del caso. Penso: “Ma perché non l’ha fatto il medico che ha cessato il turno?”. Sono ormai le 19, forse oltre, finalmente l’attesa è finita: mi informano che mio suocero è stato portato in reparto, devo andare a parlare con il medico.
Sono passate quasi 10 ore e non ricordo di avere mai visto un film così lungo.