Una giornata passata al Pronto Soccorso

· Inserito in Spazio aperto
Roberto Marini

Da anni, for­tu­nata­mente, non mi cap­i­ta­va di fre­quentare il Pron­to Soc­cor­so di Vil­la­ma­ri­na e mi auguro di non averne più bisog­no.
Purtrop­po quest’anno per ben 4 volte, mio mal­gra­do, mi sono ritrova­to in quel­la sala di atte­sa, non grande, ma, insieme alle sof­feren­ze fisiche delle per­sone, car­i­ca di ten­sione, sospiri, attese inter­minabili.
Una di queste quat­tro volte vi ho accom­pa­g­na­to mio suo­cero, una per­sona di 85 anni, su indi­cazione del suo medico curante.
Era­no le ore 10–10,30, la visi­ta al Pron­to soc­cor­so, per cautela, era dovu­ta ad una gam­ba gon­fia e a un leg­gero malessere al pet­to. Una visi­ta nec­es­saria e come risul­terà, poi, oppor­tu­na.
Ques­ta pre­mes­sa, per dire che quan­to rac­con­terò non investe la pro­fes­sion­al­ità e disponi­bil­ità del per­son­ale para­medico, né di quel­lo medico. Rac­con­terò l’esperienza di una per­sona di 85 anni, che entra alle 10,30 cir­ca al pron­to soc­cor­so, si ritro­va, pri­ma su una sedia e poi in un let­ti­no e, alle 19,00, forse oltre, gli viene comu­ni­ca­to che dovrà essere ricov­er­a­to, ris­chio una trom­bosi.
Quin­di, nes­suna polem­i­ca sul­la prestazione med­ica, ma sui tem­pi e sul sis­tema sicu­ra­mente sì, anche per­ché in tutte quelle ore non c’erano state urgen­ze né da cod­i­ci rossi né gial­li.
Dopo le prime anal­isi, ver­so le 14 (ave­va­mo già super­a­to l’ora del pran­zo ma questo era l’ultimo dei pen­sieri), bus­so alla por­ta del per­son­ale para­medico per chiedere notizie. Mi viene det­to che dagli esa­mi sem­bra tut­to ok, com­pre­so elet­tro­car­dio­gram­ma, ma bisogna atten­dere per­ché c’è da fare qualche altra ver­i­fi­ca. Mi rasseg­no e sedu­to in fon­do alla sala fer­mo la mente e il mio sguar­do ver­so chi, fino a quel momen­to era pas­sato da quel luo­go e aspet­ta­va come me o chi vi era entra­to da poco.
Non era cer­to la curiosità mor­bosa di chi vuol conoscere i prob­le­mi, le sof­feren­ze altrui, quan­to la curiosità delle immag­i­ni che mi scor­re­vano davan­ti, i per­son­ag­gi, i loro rac­con­ti. Per­sone che dipingevano con atteggia­men­ti e parole il loro vivere quo­tid­i­ano, le loro sof­feren­ze e tut­ti diven­ta­vano attori di un quadro famil­iare o per­son­ale proi­et­ta­to nell’unica parete bian­ca del­la sala. C’era il ragaz­zo di 16–17 anni che, con i pan­taloni incol­lati nel­la parte bas­sa dei glutei mostra­va i suoi box­er con scrit­to UOMO e con una stam­pel­la saltella­va fuori e den­tro la sala qua­si orgoglioso del­la sua pri­ma slo­gatu­ra. La madre, dalle curve non omo­ge­nee, ma messe in rilie­vo da pan­taloni e magli­et­ta nera tas­sati­va­mente attil­la­ta, al cel­lu­lare, con voce squil­lante cer­ca­va di spie­gare a tut­to il mon­do come era suc­ces­so:” Il bim­bo vol­e­va fare la piag­gia­ta, gli ho det­to di no e lui ha sfer­ra­to un cal­cio alla bor­sa del­la spe­sa dove c’erano due con­fezioni di sapone liq­ui­do per lava­tri­ci, sai quelle pren­di due paghi una…?!!”
ospedale filaE altri che si incon­tra­vano, malau­gu­rata­mente lì, dopo tan­to tem­po e si chiede­vano :”Come va?” Ma come, “come va!?” mi doman­da­vo, siamo al pron­to soc­cor­so, come vuoi che vada se ti va bene ti inges­sano o ti ricu­ciono.
Sono pas­sate le ore 17,30, non so più niente, non so in quale cor­ri­doio o stan­za si tro­vi mio suo­cero, quan­ti chilometri abbia dovu­to per­cor­rere su quel let­ti­no. Mi rifac­cio vivo e chiedo infor­mazioni sul­la sua situ­azione. Intan­to il per­son­ale è cam­bi­a­to e devo rin­com­in­cia­re i mie con­tat­ti: “Scusi sono il gen­ero…”, far capire che son stan­co e che incom­in­cio ad essere un po’ pre­oc­cu­pa­to. Dopo un po’ mi ras­si­cu­ra­no, “aspet­ti­amo le risposte di un ulti­mo esame” , mi viene det­to, cre­do una ecografia. Intan­to altri per­son­ag­gi sfi­lano davan­ti a me, chi ha un occhio tap­pa­to, chi un dito fas­ci­a­to con un faz­zo­let­to, c’è anche l’abitudinario che ten­ta da giorni il ricovero a tut­ti i costi. Alle 18,30, un mio caro ami­co, infer­miere al pron­to soc­cor­so che non vede­vo da anni, mi salu­ta e mi doman­da del per­ché sia lì. Molto meglio del “Come va?”. Dopo un po’ esce e mi infor­ma che il medico di pri­ma ha fini­to il turno, le risposte ci sono ma bisogna che il nuo­vo medico che è suben­tra­to ver­i­fichi e pren­da le deci­sioni del caso. Pen­so: “Ma per­ché non l’ha fat­to il medico che ha ces­sato il turno?”. Sono ormai le 19, forse oltre, final­mente l’attesa è fini­ta: mi infor­mano che mio suo­cero è sta­to por­ta­to in repar­to, devo andare a par­lare con il medico.
Sono pas­sate qua­si 10 ore e non ricor­do di avere mai vis­to un film così lun­go.

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