Una spada di Damocle sulla filiera del pomodoro
VENTURINA TERME 19 ottobre 2018 – Lo stabilimento esiste da sempre, una volta esponeva le insegne dell’Arrigoni, poi negli anni novanta, arrivarono i campani della famiglia Petti, presenti nella lavorazione del pomodoro fin dal 1925. E a Venturina fece la propria comparsa il marchio “Italian food”. Nel 2006 la svolta: Maria Gambardella Petti, che aveva guidato con piglio e capacità lo stabilimento di via Cerrini, decise di passare le consegne all’ultimo rampollo di famiglia, il giovane Pasquale Petti, fresco di studi. Nuove idee, nuovi lanci pubblicitari e il brand: ovvero il segno distintivo riconoscibile di una nuova produzione, quella del pomodoro toscano da industria.
Chi lo produce non ha mai avuto dubbi sulla sua qualità e oggi non stenta a rivendicarne i pregi: “Come il nostro non ce ne sono altri in Italia”.
Italian food iniziò così a riempire i campi con i cartelli del marchio Petti. Una chiara intenzione di coinvolgere gli agricoltori nel progetto di lancio sui mercati nazionali e internazionali della produzione toscana.
Le cose andarono bene: la base si allargò. Gli accordi con associazioni di produttori come l’Asport furono da subito proficui e, negli scaffali della grande distribuzione, cominciarono a comparire le etichette di Petti accanto a quelle dei maggiori industriali del settore, Mutti e Cirio. La filiera del pomodoro nella Val di Cornia oggi arriva a coinvolgere 2000 operatori, tra i dipendenti fissi di Italian food, tra gli stagionali che arrivano nella stabilimento nei mesi estivi e l’enorme indotto. Un’economia che, per numero di occupati, pareggia quella della grande fabbrica piombinese e per giunta costituisce una delle poche alternative rispetto alla monocultura della siderurgia.
Addirittura esiste il progetto dello spostamento delle lavorazioni nella zona industriale di Campo alla Croce liberando le aree contigue al rione Coltie con benefici per lo sviluppo dell’Italian food e per la popolazione del quartiere. L’idea non è ancora morta anche se non è male riconoscere che, a fronte delle disponibilità dei proprietari, non sempre le istituzioni hanno agevolato il trasloco ed anzi esse si sono per lo più limitate a rimedi occasionali per non ostacolare le produzioni più che a sistematici passaggi per una definitiva collocazione degli impianti nelle aree deputate.
Come un anziano dirigente dell’Asport ha recentemente affermato, le lavorazioni in campagna vivono sotto un grande tetto che è il cielo e non si può mai dire cosa il cielo ci regali. Negli ultimi due anni in verità dall’alto non è piovuta pioggia (la siccità del 2017) o ne è giunta troppa nei mesi adatti (2018). Tanto è bastato per allargare qualche crepa che nel mondo agricolo della lavorazione del pomodoro da industria già si notava. Così dai campi della Val di Cornia sono uscite quantità assai minori di materia prima rispetto a quelle previste. Gli alti costi di produzione (una settantina di euro a tonnellata), l’inclemenza del meteo, infinite altre difficoltà hanno spinto molte aziende ad abbandonare l’oro rosso, talvolta perfino poco rosso e sempre meno oro.
La conseguenza è stata drammatica. L’Italian food, nel solo 2018, ha lavorato il 40 per cento in meno di materia prima. Petti è stato costretto a cercare rimedi in zone lontane caricando il prezzo degli oneri (fino a 30 euro a tonnellata) per il trasporto. Una condizione di partenza resa quindi ancor più difficile al momento della collocazione finale del prodotto per la distribuzione alla clientela.
Pur di riuscire a far marciare gli impianti, l’azienda è arrivata a stipulare contratti di acquisto a 100 euro alla tonnellata quando i maggiori concorrenti di Petti, ovvero Mutti e Cirio, nei loro stabilimenti in Emilia Romagna, sono riusciti a firmare accordi a 79,5 euro a tonnellata.
A bocce ormai ferme e con il pesante retroterra del disastroso biennio scorso, diventa oggi determinante l’andamento della campagna del 2019. Se ne è parlato in un incontro voluto, al Calidario, dalla Petti con i produttori della Val di Cornia e le autorità locali e regionali.
Dal dibattito sono uscite certezze, prospettive ed impegni.
Le certezze hanno trovato condivisione unanime: la produzione del pomodoro toscano è una risorsa e deve essere sviluppata, l’Italian food ha un ruolo storico che deve mantenere nel comprensorio, le difficoltà della filiera non sono un’invenzione ma esistono e se il meteo ha condizionato le ultime campagne, non è solo siccità e piogge che hanno prodotto disagi e rinunce, infine l’economia della Val di Cornia non può perdere una delle sue componenti vitali.
Le prospettive si orientano invece verso un bivio: o qualcosa cambia oppure l’industria traslocherà. Lo ha detto a più riprese il giovane Petti: “Così non si può andare avanti”. Le perdite recenti sono state riassorbite dal gruppo ma è difficile che un’azienda possa pensare di marciare a ritmi ridotti addirittura per mancanza di materia prima.
Gli impegni sono stati di tutti. Le istituzioni hanno invitato ad unirsi verso un’unica direzione (sindaco Rossana Soffritti) e a inserirsi in percorsi virtuosi per usufruire, attraverso progetti, dei Piani integrati di filiera e dei bandi che la Regione riempie di finanziamenti (assessore regionale Marco Remaschi). L’Asport ha garantito, attraverso il dirigente Pietro Terzuoli, un impegno alla collaborazione per offrire le quantità e le qualità richieste dalla fabbrica. L’Italian food si è dichiarata disposta ad offrire ogni sostegno agli agricoltori.
Sul tappeto pronta per una verifica collegiale esiste la proposta di Petti: sottoscrizione di contratti pluriennali, quote fissate, prezzi definiti e rigidi, garanzie, a prova di penale, per le consegne, addirittura premi per i produttori più efficienti.
L’indicazione è per un acquisto delle materia prima da parte di Italian food a 90 euro a tonnellata e forse anche qualcosa in più per gli agricoltori da conquistare in più in fase di trattativa.
Meno dibattuto il discorso acqua, un problema avvertito con forza nel 2017 da tutte le aziende agricole. Asa e Consorzio di Bonifica si sono mossi con progetti che pare possano dare garanzie anche di fronte ad una nuova siccità. In questa direzione un passo avanti.
L’alternativa ad una svolta verso sentieri positivi, non è rosea. La Petti potrebbe davvero delocalizzare e piazzarsi in Emilia Romagna dove esistono alcuni stabilimenti pronti per essere ceduti al gruppo campano. Sarebbe un colpo mortale per la filiera del pomodoro toscano da industria e la fine di un’opportunità, l’ennesima, su cui molti hanno puntato.