Val di Cornia: ancora protagonista o ormai…
PIOMBINO 15 luglio 2013 — La crisi della siderurgia da un lato ed il venire meno delle due condizioni su cui si è basato lo sviluppo della Val di Cornia così come dell’Italia, e cioè la disponibilità di risorse finanziarie pubbliche e la manodopera giovane correlata alla crescita demografica, rendono necessario un ribaltamento dei criteri fondamentali discussi e decisi nel corso di molti anni sullo sviluppo della Val di Cornia.
Senza nessuna retorica si può dire che c’è bisogno prima di tutto di un cambio di paradigma.
È vero che la disponibilità di risorse pubbliche non era poi così vera come si é creduto e che in realtà si è risolta in debiti che debbono pagare le generazioni future, ma rimane il fatto che oggi non c’è proprio più.
É vero che l’inizio della decrescita della siderurgia risale al 1979, almeno dal punto di vista dell’occupazione, ma rimane il fatto che, con un po’ di competitività in più e molti finanziamenti pubblici sub specie ammortizzatori sociali, ha garantito nel tempo non poca occupazione.
Nessuna di queste condizioni c’è più e dunque prima di discutere di ciò che occorre in aggiunta rispetto ad oggi, bisogna porsi alcune domande basilari che fino a ieri erano fuori dello spazio politico e forse anche culturale.
Cosa vuole la Val di Cornia?
Se si accontenta di un ruolo marginale in un territorio marginale allora basta discutere di un po’ di più di turismo, di un po’ di più di infrastrutture, di un po’ di più di edilizia ed assumere un perenne atteggiamento di ricerca di risorse nella consapevolezza che di risorse ce ne sono e ce ne saranno ben poche, ma tant’è non sarebbe l’unico territorio marginale. I giovani, soprattutto quelli competenti, continuerebbero ad andar via ma per fortuna oggi la mobilità è molto più facile di ieri e raggiungere Milano o Londra non è poi così difficile.
Se invece non ci si accontenta e si riflette sul fatto che per decenni e decenni la Val di Cornia è stata nel centro del mondo perché soprattutto la produzione di acciaio, già a partire dai primi insediamenti e poi nel secondo dopoguerra, era davvero al centro dello sviluppo allora la domanda da porsi è come si possa riassumere quel ruolo centrale che l’acciaio non assicura più. Nemmeno ideologicamente. E l’altra domanda è come farlo nelle condizioni mutate, soprattutto dal punto di vista delle disponibilità finanziarie pubbliche, e secondo l’opportuno e comunque inevitabile principio, da non dimenticare mai, che, traslato a livello europeo, afferma che l’Unione europea, e la val di Cornia qui sta, si adopera per lo sviluppo sostenibile, basato su una economia sociale di mercato fortemente competitiva. Del resto numerosi studi teorici ed empirici, tra cui quelli realizzati da alcune delle principali organizzazioni internazionali (OCSE, WB) dimostrano la diretta connessione tra apertura dei mercati, qualità della regolamentazione e sviluppo economico.
Ci sarà la siderurgia nel futuro della Val di Cornia? Ci sarà totalmente? Ci sarà parzialmente? Ad oggi è difficile dirlo ma in ogni caso la problematica situazione dovrebbe indurre a rifuggire da due atteggiamenti quantomai dannosi.
L’uno consiste nell’immaginare l’impossibile e cioè che possano esistere per la siderurgia iniziative che non rispettano le leggi del mercato e della concorrenza oppure scoprire oggi disponibilità taumaturgiche di finanziamenti pubblici per ambiente, ricerca e formazione che in realtà esistono da tantissimi anni oppure ancora immaginare un’Europa chiusa nei propri confini protetti da alte muraglie per difendere l’indifendibile. L’ altro atteggiamento altrettanto dannoso, ed in realtà al primo correlato, consiste nella ricerca dell’alternativa o della complementarietà nell’evento salvifico che anche nella situazione più complicata ci possa far uscire dai guai. Che è ciò che si è perseguito negli anni più recenti con grande clamore ma nessun risultato.
Dai guai non si può uscire senza una visione chiara delle condizioni di contesto ed azioni puntuali, coerenti e continue.
Certamente alcune specializzazioni e caratteristiche come il porto o i beni culturali e naturali o l’agricoltura di qualità sono utili, ma è proprio l’approccio che deve cambiare allargando lo spettro delle possibilità all’ingresso di attività oggi centrali, come è tutto ciò che è connesso ad esempio al digitale o la green economy, e sopratutto elevando nelle istituzioni pubbliche il livello della indicazione e della promozione e diminuendo il peso dell’intervento diretto e della gestione.
Nel passato molto spesso il ruolo delle istituzioni pubbliche è stato sia quello della programmazione sia quello dell’ intervento diretto sia quello della gestione fino ad una funzione sostitutiva in campi privati. Era indispensabile e le condizioni c’erano e comunque il ruolo sostitutivo era concepito, anche se non sempre, come provvisorio. Continuare così sarebbe un grave errore ma in realtà è proprio quello che oggi si fa in peggio, ad esempio rinsecchendo in una gestione angustamente pubblicistica esperienze, come la Società dei parchi, che invece erano state costruite per evolversi verso la collocazione sul mercato e la creazione di redditività.
Un tempo il pubblico creava aree produttive essendo il peso della rendita fondiaria forte, oggi garantisca la presenza della banda larga e l’accesso al cloud e aiuti (non c’è bisogno di denaro) le giovani startup.
Qualche mese fa provocatoriamente affermammo che a Rimigliano meglio sarebbe stato creare o suggerire di creare una farm per startup innovative, oggi aggiungiamo che è anche il caso di chiedersi se sia più utile la presenza di aziende pubbliche in settori di mercato anche qualificati e non o piuttosto creare i presupposti perché più privati trovino appetibile la presenza in quei settori dando dunque a loro, con gare pubbliche che premiano la competenza nella competizione, i denari pubblici quando ci sono o creando le condizioni per trovare vantaggioso provarci.
Oggi il problema è proprio questo: creare le condizioni, talvolta finanziariamente talvolta no, di un ambiente maggiormente competitivo e concorrenziale e le condizioni devono essere tali da suscitare interessi per interventi e attori qualificati.
Si parla in conclusione di due prospettive completamente diverse.
L’una prospettiva crea un ambiente chiuso l’altra accetta le sfide dell’apertura. Si sa bene che ogni paese quando ha accettato la seconda ne ha visto i risultati.
Questo vuol dire mutamento di paradigma: società aperta contro società chiusa, accogliere le possibilità e le occasioni offerte dal mondo globalizzato o chiudersi e perire nell’asfissia di un recinto protetto, in realtà nemmeno più protetto solo asfissiante.
(Foto di Pino Bertelli)